Una task force venne realizzata per affrontare il problema e la strada prescelta fu quella stabilita a livello europeo per le malattie da quarantena: eradicazione. E da lì la stura a feroci polemiche, accuse, denunce e perfino indagini di una Procura. Il tutto reso tragicomico dalla ridda di bufale che intorno al caso si sono moltiplicate. Tutti fermi per anni, quindi, tranne la Xylella, la quale si è espansa intanto su un areale molto più vasto di quello iniziale. Chiediamo quindi a lei, finora silente, di dirci qualcosa dal suo punto di vista.
Signora Xylella, a quanto pare passo dopo passo si sta prendendo mezza Puglia. Ci spiega come ha fatto a svilupparsi così alla chetichella?
“Guardi, il mio segreto è tutto lì: agire alla chetichella. Se arrivi in un’area nuova, esplodi subito al massimo della tua potenza, si accorgono subito che ci sei e possono fare qualcosa. Se invece ti muovi con cautela, infetti oggi qui, domani là, prima che si accorgano della tua presenza sei arrivato a decine di chilometri di distanza, focolaio dopo focolaio”.
Ma Lei in Italia quando e come ci è arrivata?
“Non saprei di preciso. Forse era il 2009 o il 2010. Ma potrei sbagliarmi, noi batteri mica abbiamo calendari. So solo che mi sono addormentata in Costa Rica e mi sono risvegliata a Gallipoli. Splendide spiagge, mare cristallino, ulivi meravigliosi, cioè il mio pane. Mi sono trovata subito bene e ho deciso di restare”.
Come ha fatto però a colonizzare il Salento, arrivando a bussare alle porte di Bari?
“Niente di più facile. Basta stare sempre un passo avanti a chi ti insegue. Quando capirono che c’ero e cosa stavo facendo nel gallipolino, io intanto ero già arrivata un po’ più in là. Tanto chi si accorge di qualche ramo secco in giro per un uliveto? Ce n’erano tanti anche prima. E così mentre tutti stavano a cercarmi dove ormai era chiaro che c’ero, io già stavo infettando piante qualche decina di chilometri più in là. Dura circondare un nemico che ti ha già scavalcato e ti sta guardando dalla parte delle spalle…”
Astuta, in effetti. E in questa diffusione chi l’ha aiutata?
“In parecchi direi. Colgo anzi l’occasione per ringraziare tutti per l’aiuto datomi. In primis Phylaenus spumarius, la cosiddetta sputacchina. Senza di lui non riuscirei a infettare gli olivi. E poi anche voi umani”.
Noi umani?
“Certo. A parte la lentezza nella reazione, secondo Lei, come facevo a creare focolai a chilometri di distanza senza che mi aiutaste voi? Con l’aiuto della sputacchina potevo espandermi solo a cerchi più o meno concentrici, ma mica potevo compiere grandi balzi territoriali. Invece pensi a quanti agricoltori si spostano da una zona all’altra coi trattori o i furgoncini. Senza parlare di turisti e gitanti vari. Lei è un appassionato ciclista, no?”
Sì, decisamente.
“Ecco, non Le è mai capitato di portarsi a spasso qualche insetto mentre andava per campagne in bicicletta?”
Certo che sì. Una volta una cicalina mi restò attaccata alla spalla per chilometri.
“Ecco. Pensi se fosse stata una sputacchina e Lei stesse pedalando nel Salento… Diverse malattie virali, fungine o batteriche, possono contare su un vettore. Io invece mi sono servita almeno di due, uno primario, il Phylaenus, uno secondario. Voi”.
Che poi, siamo sicuri che i “meriti” dei disseccamenti siano tutti Suoi? Non a caso si parla di complesso del disseccamento rapido dell’ulivo, mica solo di Xylella.
“E a me va benissimo così. Si figuri. Del resto, beccarmi con un’analisi è più difficile di quanto si pensi. Provi a immaginare un uliveto, per lo più sano, ma con il 5% delle piante infette. Di queste solo una è sintomatica. Mica può analizzare ogni singolo ramo dell’uliveto per scoprire se ci sono. Infatti, nella stragrande maggioranza delle analisi di monitoraggio io non vengo mica trovata, nonostante sia lì, nascosta nei vasi linfatici di piante ancora apparentemente sane. E questo ha dato il via alle voci che io non c’entro niente coi disseccamenti. Eppure le ripeto che ero lì, nel ramo affianco, o nell’ulivo affianco. Quindi, come detto, a me va benissimo così”.
Non pensa però che l’uomo l’abbia aiutata anche stressando i suoli, impoverendoli e rendendo le piante più sensibili alle infezioni?
“Di certo un po’ più di cura per i vostri terreni mica vi farebbe male. Capisco che la chimica agraria sia utile, ma a volte perdete di vista gli equilibri del suolo. La sostanza organica scende e le piante mica godono. Ma la risposta alla Sua domanda è no. Me la sono cavata benissimo anche all’interno di uliveti biologici, con tanta di quella sostanza organica nel terreno che sembrava quasi torba. Niente diserbanti, né altri agrofarmaci. Eppure, non per vantarmi, ho fatto secche tante di quelle piante che non ha idea. Un conto sono le sane pratiche di gestione agronomica di una coltura, un altro gli aspetti fitosanitari. Altrimenti dovremmo pensare che di malaria si possono ammalare solo le persone deboli e già malaticce di loro. Lo racconti a Fausto Coppi, il Campionissimo, morto proprio di malaria. Se c’era uno sano e forte era lui, eppure si è ammalato ed è morto lo stesso. E anche lì, morì per colpa di chi non seppe riconoscere per tempo la malattia, ostinandosi a curare tutt’altro. Una similitudine angosciante, non trova?”
Eccome, se trovo. Forse però tale malinteso è nato perché Lei era patogeno del tutto nuovo per noi?
“Macché. Solo pochi anni fa una mia carissima amica ha fatto danni pazzeschi e i tormentoni erano i medesimi”.
E chi sarebbe?
“Il plasmide della Flavescenza Dorata della vite. Mi somiglia molto, seppure con alcune differenze. Io mi posso spostare anche grazie a insetti diversi, lui ne ha uno solo. Io posso vivere in più specie vegetali, lui solo nella vite. Ma alla fine sono più le cose che ci accomunano di quelle che ci differenziano.
Anche per la Flavescenza si sono sentite sciocchezze di ogni tipo, incluse le teorie degli squilibri nutrizionali, attribuendo ad essi i sintomi fogliari che precedevano la morte delle piante. Anche allora la colpa fu data a diserbanti e agrofarmaci, negando perfino l’esistenza stessa del patogeno, mentre folcloristici personaggi andavano di vignaiolo in vignaiolo proponendo terricci spacciati per miracolosi. Quindi nulla di nuovo sotto il sole, grazie anche alla vostra incapacità di ricordare le lezioni impartitevi dalla storia. Infatti mi stupisco onestamente che anche per me si siano spese le parole bizzarre che vennero fuori per la Flavescenza.
Del resto, per contenere quella malattia avete emanato perfino un Decreto di lotta obbligatoria con insetticidi contro il vettore e mica è scoppiata la rivoluzione. Qui in Puglia se dici di fare anche un solo insetticida contro la sputacchina, apriti cielo. Pare si stia proponendo di fare esplodere bombe atomiche…”
Le differenze sociologiche e psicologiche fra i due casi, quindi, dove risiederebbero?
“Ce ne sono diverse. In primis, per la Flavescenza della vite non si è sollevato alcun moto popolare. E questo ha tenuto bassi i toni della vicenda. La gente del Nord, abituata a vedere impiantare ed espiantare vigneti, non ha percepito come sconvolgente l’idea di eradicare le piante malate e magari quelle vicine. Loro guardano alla collina vitata in sé, mica alla singola pianta di vite. Provi a pensare a un uliveto. È magari lì da 70-80 anni. Alcune piante superano il secolo. Chi oggi è anziano già vedeva quegli ulivi quando ancora era un bambino. Per forza che a dirgli che deve tagliare quegli alberi si sente morire. Lui e la cittadinanza che gli vive intorno. In più, mentre per la Flavescenza gli espianti potevano essere un po’ più mirati, con me mica si può scherzare: per stare sicuri bisogno tagliare tantissime piante, malate o sane che siano, per centinaia di metri attorno al focolaio conclamato”.
In pratica uno stamping out, come in zootecnia.
“Esatto. Quando trovate un paio di tacchini positivi all’aviaria in un allevamento, mica ci pensate due volte. Li abbattete tutti, sani e malati. Ciò perché il pericolo che il virus possa diffondere passando dall’allevamento a uccelli selvatici è gravissimo. Finché resta nei capannoni lo si può controllare, ma se infetta una tortora o un merlo, addio. Chi lo ferma più?”.
In effetti mica solo coi virus. Anche per Aethina tumida, il coleottero parassita degli alveari, è stato necessario dare fuoco alle colonie per eradicarlo.
“Appunto. Nemmeno con quello si scherza. L’unico modo per non farlo espandere era bruciare tutto. E a proposito di bruciare, si rende conto che abbattete in una volta centinaia di alberi sani, proprio per evitare che facciano passare un incendio? E solo il cielo sa di quanto ne avreste avuto bisogno di questa pratica quest’anno, con tutti gli incendi che avete avuto”.
Sì, lo so. Sono le linee tagliafuoco concepite per sbarrare la strada alle fiamme sui monti, nei boschi.
“Quindi il concetto di abbattere una minoranza di organismi sani per salvare la maggioranza degli individui dovreste averla bella in mente. Eppure…”
Non me lo dica. Ma quindi Lei cosa risponde a chi dice che gli alberi deperiscono e muoiono per colpa degli erbicidi, uno su tutto glifosate?
“Eccone una che mi ha sempre fatto ridere molto. Chiunque abbia una minima infarinatura di patologia vegetale sa riconoscere un fingerprint tipico di una contaminazione chimica da quello di un’epidemia.
Innanzitutto, perché solo in Puglia e non, per esempio, negli uliveti spagnoli? Quelli sì che sono intensivi e trattati spesso e volentieri. E stanno benone. Pensi invece a quanto successo in America con l’aminocyclopyrachlor, un erbicida usato nei golf e nella gestione dei parchi in generale. Alla fine si è scoperto che era fitotossico per le conifere. Le morie non iniziarono in un punto preciso, ovvero un primo focolaio, per poi espandersi sul territorio come ho fatto io in Puglia. Ovunque l’erbicida sia stato usato in presenza ravvicinata di conifere queste morivano, indipendentemente da dove si trovassero sul territorio Usa. Non c’era una diffusione. La mappa dei casi era puntiforme e priva di schemi che ne delineassero un’espansione di tipo epidemiologico. Era chiaro che i disseccamenti erano dovuti a un agente chimico rilasciato nelle immediate vicinanze della pianta. Ecco, questo è il fingerprint tipico da moria causata da un agente chimico. A Lei sembra che ci siano somiglianze con me? ”
Direi proprio di no. Ricorda altri casi di epidemie devastanti, oltre alle sue?
“Eccome. E con grande invidia, aggiungo. Pensi al cancro corticale del castagno, la Cryphonectria parasitica. Quella sì che è una fuoriclasse. Deve sapere che il castagno era uno degli alberi simbolo del Nord America, ma nel giro di solo un secolo venne praticamente estinto negli Usa da quel patogeno, importato dall’Asia nel 1890 insieme a esemplari di castagni giapponesi e cinesi. Più o meno come accaduto con me dal Costa Rica. Gli alberi uccisi in pochi decenni pare ammontino a tre miliardi, sommando quelli malati a quelli abbattuti per creare delle barriere all’avanzata del patogeno. Purtroppo, anche lì giocarono male le loro carte, perché provarono a sbarrare la strada a nuovi focolai quando altri già si erano insediati in altri posti. Le ricorda nulla questa strategia? A me pare molto simile a quella adottata qui in Puglia. Solo che io sono molto più buona della Cryphonectria...”
Insomma, direi che ora sta un po’ esagerando con la modestia. Ma in America adesso che stanno facendo per i propri castagneti?
“Giunti vicini al rischio di estinzione negli anni ‘50, ora i castagni potrebbero ricolonizzare gli Usa grazie alle biotecnologie. L’American Chestnut Research and Restoration Project ha infatti prodotto un tipo di castagno resistente al cancro corticale grazie all’aggiunta nel suo genoma di un gene del frumento che conferisce resistenza ai patogeni del gruppo cui appartiene Cryphonectria”.
Cioè, un castagno Ogm?
“Proprio. Come vede, mentre qui girano le bufale sugli olivi Ogm inesistenti, là in America sugli Ogm lavorano sul serio e propongono soluzioni concrete. Pensi che i ricercatori possono inserire quel gene della resistenza in ogni tipo di castagno, riproducendo fedelmente le popolazioni tipiche che presidiavano i diversi areali. Non trova sia fantastico? Ora resta solo da vedere se tali castagni transgenici passeranno il vaglio dell’opinione pubblica. Sa, di teste un po’ particolari ce n’è tante anche lì…”
Sfonda una porta aperta. E a proposito di particolarità, sulle accuse di essere stata immessa nel territorio per favorire proprio gli ulivi Ogm, oppure la Tap, il metanodotto?
“Qui sconfiniamo nel surrealismo. Le ho lette anch’io le teorie sugli ulivi Ogm messi a punto da Monsanto, dopo aver comprato la società brasiliana di nome Alellyx, quasi il mio anagramma. Ma qui siamo nel pieno complottismo. Gli olivi Ogm non esistono. Forse, visto che l’idea gli è stata data, qualche azienda ci penserà in futuro, ma a oggi è una delle più sonore bufale in circolazione. E pensi, come già visto per i castagni americani, gli olivi gm resistenti potrebbero essere la mia fine e quindi la salvezza dell’olivicoltura pugliese. Non lo trova grottesco che la soluzione al male sia vista come il male stesso?”
Trovo, purtroppo. E per la Tap?
“La Tap, come diceva Lei. Ora, mi spiega che senso ha dire che sono stata diffusa nel Salento per deprezzare gli appezzamenti da espropriare? Io sono sbarcata in Puglia a Gallipoli, sulla costa occidentale. La Tap arriva in Puglia sulla costa orientale. Dalla parte opposta. In più, gli ulivi mica vengono abbattuti, bensì spostati dopo averli georeferenziati per poi reimpiantarli esattamente dove si trovavano. Io con la Tap c’entro come i cavoli a merenda, me lo lasci dire. Siamo solo arrivati entrambi alle cronache giornalistiche più o meno nello stesso momento e questo ha fatto fare il classico due più due uguale cinque che caratterizza ogni complottismo balzano”.
Ma quindi, bufale e complottismi vari a parte, ora per liberarci di Lei cosa dobbiamo fare?
“Nulla. Ormai non potete fare più nulla. Forse, ma badi bene, forse, avreste avuto qualche possibilità se aveste abbattuto subito qualche decina di migliaia di piante, anche sane, nel 2013 e 2014. Tanto in Puglia ce ne sono 60 milioni di ulivi, abbatterne 60mila sarebbe stato l’uno per mille del vostro patrimonio. Invece no. Anche l’unica speranza che avevate per eradicarmi l’avete perduta. Ora con me ci dovrete convivere in eterno. Fatevene una ragione: nelle Americhe mi scontro con voi umani da molti decenni, su vite, su agrumi, su olivi. Quindi non sarà diverso da voi. Voi mi toglierete da un posto tagliando gli alberi e io intanto starò infettando altri olivi da un’altra parte. E via così, troveremo uno strano equilibrio e una poco piacevole convivenza. Alla fine, tra piante morte per i disseccamenti e quelle che dovrete abbattere comunque nei prossimi decenni, altro che 60mila…”.
Quindi non c’è nulla che la spaventi?
“Come detto, mi preoccupano un po’ le varietà tolleranti. Come pure l’idea di svilupparne di nuove addirittura resistenti, magari gm. Ma, le ripeto, io vivo anche su altre piante, in qualche modo me la caverò. In Puglia ormai ci sono e mi ci dovete tenere. E guardi, Le dirò, sto già guardando con interesse anche ad altre regioni. L’Italia è un paese meraviglioso sa? Perfino i vari prodotti che avete provato per combattermi, me lo lasci dire, sono un po’ come fare una flebo a un paziente in ospedale. Gli si dà liquidi e nutrimento, ma se è malato, malato resta. Aiutano, magari. Ma se posso dire la mia, me la posso cavare benissimo nonostante tutti i vostri trattamenti.”
Sarà bene quindi rassegnarci. Come ci siamo rassegnati alla Flavescenza o alla Peronospora, sarà bene ci si rassegni anche alla presenza di Xylella. Un patogeno da quarantena che da quarantena non è stato purtroppo trattato. Con tutte le conseguenze del caso.