Due anni fa il Consiglio dei Ministri spagnolo promulgava in tempo record un piano per lo sviluppo urgente del biogas e l'indipendenza dal gas naturale russo. Dal nostro piccolo ci interrogavamo sull'efficacia di tali misure e se la Spagna, Paese con un enorme potenziale di residui agrozootecnici, fosse in grado di superare l'industria italiana del biogas grazie alle (apparenti) semplificazioni procedurali e al supporto istituzionale.
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Il quadro che si desume dalle conferenze al Salone del Biogas (Valladolid, 1-2 ottobre 2024) e dalle pubblicazioni specializzate è piuttosto deludente. Ecco una rassegna sulla situazione spagnola, con qualche accenno al contesto europeo.
I "comitati del no" all'opera
Nonostante due anni fa non ci fossero indizi di ideologia antibiogas fra i partiti politici spagnoli, la Spagna è simile all'Italia per il clima di perenne campagna elettorale e la caccia al voto ha trovato un nuovo campo. Luis Puchades, presidente di Aebig, l'associazione di categoria spagnola dell'industria del biogas, denuncia in un reportage l'esistenza di una "bolla" del biogas in Spagna. Ma non si tratta di una bolla nel senso di grande espansione del settore, che conta appena duecento impianti (molti dei quali di vecchia data) e solo dodici impianti di biometano. La bolla è di tipo mediatico, nel senso che la stampa generalista e la propaganda di Stato hanno creato l'immagine di un settore che beneficia di supporto istituzionale e investitori da tutto il mondo che colgono opportunità di affari miliardari.
La realtà fattuale è completamente diversa: in Spagna non ci sono tariffe incentivanti la produzione elettrica né bonus di alcun tipo all'iniezione del biometano in rete o al suo uso automobilistico, ed il Governo Sánchez (socialisti e alleati di sinistra) non ha nemmeno l'intenzione di concedere tali incentivi. Eppure la Spagna ha da decenni dei grossi problemi ambientali per colpa della carente gestione dell'immane quantità di sottoprodotti olivicoli (il 40% della produzione mondiale di olio di oliva e dei liquami suini, primo produttore europeo di carni suine).
Secondo Puchades, la disponibilità di sottoprodotti basterebbe da sola ad attirare investimenti malgrado la mancanza di incentivi, ma il vero problema è la contestazione sociale. Gli argomenti dei "comitati locali" sono dello stesso stampo disinformativo e allarmista al quale siamo ormai abituati in Italia: gli impianti di biogas "puzzano", "sono focolai di botulino e altre malattie", "perpetuano il modello di crudeltà verso gli animali", "fanno arricchire le multinazionali a scapito del popolo", "perpetuano la dipendenza dal gas impedendo lo sviluppo del fotovoltaico e delle auto elettriche". La solita sindrome Nimby insomma.
Aebig è corsa al riparo redigendo un disciplinare di buone pratiche, fra le quali la raccomandazione di posizionare gli impianti a più di 3mila metri dai centri urbani, ma ritiene che siano necessarie più campagne di informazione per superare il fenomeno.
Bacchetta politically correct dall'Europa, ma Bruxelles generalizza troppo
Tatiana Márquez, responsabile dello Sviluppo dei Gas Sostenibili - cioè biometano e "idrogeno verde" - nello staff della commissaria all'Energia Kadri Simson, sostiene in un reportage che il biometano ha un ruolo cruciale nella decarbonizzazione del sistema energetico europeo, in particolare in quei settori in cui l'elettrificazione non è tecnicamente possibile o economicamente viabile.
Col tono politically correct tipico dei tecnici di Bruxelles, la funzionaria ha bacchettato, senza nominarlo, il Governo Sánchez, affermando che in Spagna c'è ancora molto da fare per incentivare il biometano. In realtà, non è stato fatto niente per incentivarlo - colpa della politica - ma la funzionaria generalizza troppo nel considerare che "tutti i Paesi europei hanno grande potenziale di produzione di biometano" e non tiene conto di alcuni fattori limitanti puramente biologici, combinati con peculiarità geografiche.
Nel caso particolare della Spagna, la rada rete di metanodotti costituisce effettivamente uno dei fattori limitanti, ma, contrariamente a quanto espresso dalla funzionaria europea, lo è solo per il biometano agricolo. In Spagna esiste effettivamente un grande potenziale per la digestione anerobica di Forsu, la Frazione Organica dei Rifiuti Solidi Urbani, e le grandi città sono servite da gasdotti.
Ci sono però degli ostacoli tecno-economici allo sviluppo del biogas agricolo, per il quale la lontananza dai metanodotti sarebbe il minore dei problemi: il vero problema è come produrre il biogas. La Spagna è il principale produttore di carni suine, con oltre 50 milioni di capi concentrati maggiormente in quattro regioni. Il fattore limitante per il biogas in tali regioni è che i liquami suini producono poco metano perché contengono maggiormente acqua e ammoniaca, con poca materia organica metanizzabile. Le regioni dove vengono allevati i suini si caratterizzano per suoli estremamente poveri di carbonio e clima molto secco. La digestione anaerobica dei liquami non offre dunque nessun vantaggio economico - perché produce pochissimo metano - e neanche ambientale - perché spargere un digestato carico di azoto su terreni aridi ne riduce ulteriormente il contenuto di carbonio organico, compromettendo la fertilità sul lungo termine (si vedano "Agricoltura rigenerativa: principi e pratiche" e "Digestato solido come ammendante: benefici rispetto al compost e al bokashi" con il calcolatore di C organico al suolo).
La Spagna è anche il principale produttore mondiale di olio di oliva, i cui sottoprodotti sono adatti per la produzione di biogas, ma le regioni dove si concentrano i residui oleicoli non sono le stesse in cui si concentrano gli allevamenti suini.
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L'industria dell'olio di sansa consuma la maggior parte delle sanse, che vengono bruciate dopo l'estrazione per produrre l'energia necessaria al processo. Le quantità di sanse disponibili per la digestione anaerobica sono dunque molto minori rispetto alle "stime di alto livello" degli uffici di Bruxelles. Il problema ambientale dell'industria oleicola spagnola non sono dunque le sanse bensì le acque di vegetazione, abbondantissime perché una grande percentuale dei frantoi utilizza il metodo a tre fasi. Ma, al pari dei liquami suini, il potenziale metanigeno delle acque di vegetazione è molto basso perché sono, appunto, acque reflue con poca materia organica fermentescibile.
Stando alle dichiarazioni di Tatiana Márquez, dunque, la ricetta dell'Unione Europea per incentivare la digestione anaerobica rimane dunque invariata e sbagliata: più sovvenzioni statali per compensare i maggiori costi del biometano e dell'energia elettrica da biogas, derivanti però da modelli di produzione industriale centralizzata, tipici dell'economia lineare, imposti dalle stesse politiche europee. Nessuna agevolazione per i piccoli impianti dedicati all'autosufficienza energetica delle aziende agricole, oppure all'utilizzo termico del biogas in reti dedicate, o alla generazione elettrica limitata alle ore notturne, che sarebbe la cosa più logica se lo scopo fosse davvero decarbonizzare il sistema energetico.
La ricerca ai margini della realtà
Una costante in tutto il mondo è la totale mancanza di criterio nell'assegnazione di fondi pubblici alla ricerca. Anni fa le politiche europee hanno bruciato milioni di euro in inutili ricerche, i cui risultati fallimentari erano assolutamente prevedibili, per l'ideologia dei biocarburanti da alghe.
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Adesso è il turno dei "gas rinnovabili".
Precedentemente alla pubblicazione del Decreto di incentivazione del biometano, il Governo della Catalogna aveva finanziato un progetto di ricerca per "validare" una nuova tecnologia che, secondo i ricercatori, consentirebbe di:
- sfruttare l'alto potenziale di biogas delle aree rurali della Catalogna (falso, la Catalogna è una delle principali aree di allevamento intensivo di suini, con le limitazioni già spiegate al punto precedente);
- attirare personale qualificato nelle aree rurali (improbabile, lo standard di vita di un laureato in una città come Barcellona rende poco attraente l'idea di traslocare per lavorare in un contesto di allevamenti intensivi in provincia).
Comunque sia, la tecnologia in questione è un reattore catalitico che produce metano a partire dalla CO2 contenuta nel biogas e H2 prodotto tramite idrolisi dell'acqua, alimentata da pannelli fotovoltaici. Per quanto compatto e - a dire dei loro creatori - di basso costo, tale sistema è un abominio dal punto di vista termodinamico.
I seguenti semplici conti dimostrano perché il Governo catalano avrebbe potuto dedicare i soldi pubblici a qualche idea più promettente:
- La conversione di CO2 in CH4 - indipendentemente dal processo utilizzato per tale conversione - si esprime con la seguente reazione: 4H2 + CO2 → CH4 + 2 H2O
In altre parole, la metà dell'idrogeno prodotto viene persa come acqua. Servono 4 Nm3 di idrogeno per produrre 1 Nm3 di metano. - Servono 5,08 kWh di energia elettrica per produrre 1 Nm3 di idrogeno (1). Quindi, per produrre 1Nm3 di metano bisognerà consumare 20,31 kWh di elettricità. Ma 1 Nm3 di metano ha un potere calorifico pari a solo 9,54 kWh, dal quale si potrebbero ricavare al massimo 3,82 kWh di energia elettrica. L'efficienza della "tecnologia validata", calcolata con le giuste equivalenze termodinamiche fra elettricità e calore, è quindi pari a 3,82/20,31, ovvero il 18,8%.
- Per inciso: se l'energia elettrica dei pannelli fotovoltaici venisse immagazzinata in normali batterie, l'efficienza complessiva nel recuperare tale elettricità durante la notte sarebbe dell'ordine del 90%. Che senso hanno i "gas sostenibili" sui quali Bruxelles - e di rimbalzo i Governi nazionali - basano le loro politiche di decarbonizzazione?
Bibliografia e note
(1) K.W. Harrison, R. Remick, G.D. Martin, A. Hoskin, Hydrogen Production: Fundamentals and Case Study Summaries Preprint, Conference Paper NREL/CP-550-47302 January 2010.
Nota 1: Nm3 = normal metro cubo, cioè il volume del gas in condizioni normalizzate a 0°C e 101,32 kPa.
Nota 2: si assume che l'efficienza di conversione del metano in energia elettrica sia quella di un cogeneratore industriale con motore Otto, pari al 40%.