Due morti e oltre quattrocento evacuati a Faenza una settimana fa, per l'esondazione del Lamone, fiume dagli argini fragili che ha messo in ginocchio vite umane e agricoltura. Non avevamo ancora finito di parlare dell'allarme siccità che sta colpendo l'Italia - così come la Spagna, la Grecia, il Nord Africa, e moltissime altre realtà nel mondo - che basta qualche precipitazione fuori controllo, greti dei fiumi resi duri come cemento, talpe (o nutrie) a crivellare il terreno, che l'acqua diventa sinonimo di morte e distruzione. Un diluvio biblico.
Ed è in frangenti come questi - la redazione di AgroNotizie®, fortunatamente non toccata dalla tragedia - che emerge l'urgenza di intervenire contro i cambiamenti climatici. Il commissario straordinario per la lotta alla siccità, Nicola Dall'Acqua, dovrà mettere a terra decine di progetti e farlo rispettando le regole, ma accelerando il più possibile sul fronte della loro esecuzione.
Una missione difficile, non impossibile. Perché le risorse ci sono. Per oltre mille interventi richiesti dai territori della nostra penisola sono stati messi a disposizione dal Ministero delle Infrastrutture i primi fondi. Si parla di 102,3 milioni di euro per affrontare l'emergenza acqua in Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Lazio.
Bisogna intervenire su più fronti. Innanzitutto, sul piano delle infrastrutture per accumulare più riserve idriche, evitare sprechi e perdite, accelerare sul fronte della desalinizzazione alla foce dei grandi fiumi (Po e Adige in primis), impianti di depurazione.
Non ha senso dire, come nel caso di Faenza, che quanto accaduto - con precipitazioni in 36 ore pari a un quinto del totale della quantità di acqua che scende in un anno - non si è mai visto negli ultimi cento anni. Lo scenario climatico è cambiato, e poco importa attribuire a posteriori colpe all'uomo, all'antropocene, al destino. Bisogna adeguarsi a eventi imprevisti e forse anche imprevedibili, benché oggi vi siano strumenti di monitoraggio in grado di fornire modelli predittivi puntuali, aspetto che fa ancora più rabbia, perché denuncia che le falle stanno altrove, magari nel monitoraggio sghembo dei fiumi e degli argini.
Il Rapporto Water Economy in Italy, realizzato da Proger con la collaborazione della Fondazione Earth and Water Agenda, a cura di Erasmo D'Angelis e Mauro Grassi, fornisce molti numeri sui quali riflettere. Il Sole 24 Ore, nei giorni scorsi, ne ha citati alcuni. Come le 531 grandi dighe in Italia, gestite da 131 concessionari, con un volume invasabile di 13,6 miliardi di metri cubi. La capacità reale, tuttavia, sarebbe inferiore: 75 grandi dighe (con una capacità di 5,2 miliardi di metri cubi) sono in collaudo, mentre 41 (per 1,2 miliardi di metri cubi) hanno un invaso limitato.
Per non parlare di un tasso medio di perdite del sistema idrico del 40,7% (dati Arera), una rete vecchia (il 60% è stato posato oltre trent'anni fa) e tariffe idriche tra le più basse in Europa (dovranno essere forse alzate? La sensazione è che la direzione sarà quella).
Bisogna investire in progetti in grado di guardare lontano, con una programmazione almeno ventennale e compiti divisi fra tutti gli attori coinvolti. Il mondo agricolo dovrà trovare sistemi più efficienti di irrigazione, ma anche condividere i dati meteo con le aziende per gestire la risorsa idrica in maniera ottimale: potrebbe essere un nuovo servizio dei consorzi di bonifica? Alcune realtà, invero, già lo fanno.
Nuove tecniche agronomiche sono altrettanto necessarie, così come la ricerca scientifica dovrà sviluppare varietà più resistenti agli stress climatici (dalla siccità alle temperature elevate, alla concentrazione di piovosità). Una nuova gestione della meccanizzazione dovrà accompagnare la rivoluzione scientifica.
E poi, come detto, gli interventi infrastrutturali, di riduzione degli sprechi, di miglioramento degli stoccaggi, di riutilizzo delle acque reflue.
Una logica di lungo respiro potrebbe anche dare maggiore stabilità sul piano geopolitico. Recentemente l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha segnalato che negli ultimi trenta anni il numero di persone a rischio che abitano le zone costiere del Pianeta è passato da 160 a 260 milioni e il 90% di questi proviene da Paesi in via di sviluppo. Entro il 2050, inoltre, 1 miliardo di persone potrebbe essere sfollato a causa dei disastri climatici.
Secondo gli analisti, "la lotta ai cambiamenti climatici è la più grande minaccia globale per la salute del XXI Secolo: indebolirà i nostri diritti fondamentali all'acqua, al cibo e all'alloggio". Sul tema del climate change il prossimo 23 maggio uscirà il saggio di Ludovica Amici "Caos. Come la crisi climatica influenzerà la migrazione globale".
Non possiamo più passare da un'emergenza all'altra, piangere vite umane e sopportare una migrazione figlia di una pianificazione mancata e di un approccio scoordinato del fenomeno dei cambiamenti climatici. Non è tempo di individuare colpevoli, ma di rimboccarci le maniche.
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