Gli sprechi alimentari sono uno dei paradossi del nostro tempo: mentre i Paesi in via di sviluppo continuano ad investire in politiche per la sicurezza alimentare, i Paesi cosìddetti "sviluppati economicamente" - mi chiedo se lo possiamo dire ancora –, sprecano una gran quantità di cibo lungo tutta la filiera dalla produzione al consumo.

E’ facile, quindi, comprendere quanto l’argomento sia rilevante in un’ottica di sviluppo sostenibile: ridurre lo spreco è un obbligo morale e oggi anche civile, perché non abbiamo abbastanza cibo per sfamare la popolazione mondiale e perché se non consumiamo quello che produciamo arrechiamo danni all’ambiente.

L’argomento è particolarmente complesso, sia perché non esiste un’unica definizione di spreco alimentare, sia perché non esistono dati precisi.
Sono necessarie azioni coordinate tra le istituzioni, gli agricoltori, le imprese di commercio e trasformazione, i consumatori per affrontare in modo coerente il problema che deve essere inserito in appropriate strategie di sviluppo sostenibile.

Per questo, il Centro di ricerca Opera attraverso il suo Caffè scientifico Caffexpò ha intrapreso un percorso di dialogo per riflettere sull’argomento e fornire argomenti operativi per coloro che si sentono coinvolti professionalmente e civicamente.
Nel primo incontro organizzato dal Comitato Expo e dal centro di Ateneo Expolab, alcuni studenti hanno incontrato il direttore generale della DgSanco, Paola Testori Coggi a Bruxelles, nel rinomato Club La Patinoire.

Riporto in breve quanto discusso, sebbene un completo resoconto può essere letto dal documento di Chiara Corbo disponibile qui e a breve sul canale di Youtube dedicato a Caffexpò.


Come lo chiamiamo cibo perso o cibo rifiuto?

Sulle definizioni, dicevo, il primo nodo da sciogliere.
Fino ad oggi non ci sono definizioni accettate a livello internazionale, forse quella più comune è quella resa pubblica dalla Fao nel 2010: per perdite di cibo si riferisce alla riduzione in massa di cibo lungo la filiera che è responsabile della produzione di cibo alimentare destinata al consumo umano (fasi di produzione, conservazione, trasformazione).
Il rifiuto alimentare è definito quello che si realizza nella fase di distribuzione commerciale, vendita e consumo.
Nella sua relazione, la Fao stima che annualmente su scala globale si sprecano 1.3 miliardi di tonnellate di cibo, equivalenti a circa un terzo della produzione alimentare destinata al consumo umano.
Riguardo all’esattezza dei dati c’è molto da discutere, e tante polemiche sono in atto e molto di quanto propagandato anche da eminenti quotidiani ed istituzioni sembra non corrispondere al vero soprattutto perché non supportato da dati. Comunque sia, è evidente l’importanza del problema per le sue ripercussioni ed implicazioni per la sicurezza alimentare e per la dimensione morale ed economica dell’argomento.

Le principali cause

Il totale di sprechi sembra essere distribuito in modo omogeneo nel mondo, ma nei Paesi più poveri più del 40% delle perdite avviene nelle fasi post raccolta e di trasformazione mentre, nei Paesi ricchi la stessa percentuale occorre a livello del consumatore e della rete di vendita.
Nel primo caso rilevante è l’incidenza delle cause fitopatologiche, della cattive pratiche di raccolta ed agronomiche, delle cattive tecnologie di trasformazione e trasporto.
Nel secondo caso, le perdite maggiori sono dovute alle eccedenze (la domanda è inferiore dell’offerta), ad un eccesso di criteri di qualità imposti dalla Grande distribuzione, criteri estetici (i prodotti ortofrutticoli perfetti) e commerciali (il classico 2x1), cattiva informazione del consumatore che è spesso confuso e informazioni comunicate anche attraverso l’etichetta (interpretazione dell’avvertenza da consumare “meglio prima del” e “da consumare entro il”).


Cosa fare ?

Le soluzioni pratiche per ridurre le perdite sono tante e la Fao promuove diverse iniziative.
E’ però molto importante sottolineare che solo attraverso la cooperazione tra tutti gli attori della filiera inclusi i consumatori, si possono raggiungere risultati concreti.
L’educazione è prioritaria e nuove metodologie sono da sperimentare non più in maniera nozionistica ma esperenziale, coinvolgendo attraverso nuove strategie didattiche le famiglie e le tradizioni locali.
La produzione e il consumo sostenibile devono andare di pari passo con percorsi condivisi che permettano di contrapporsi in modo costruttivo a quelle strategie di marketing che, nei Paesi ricchi, sono la causa delle perdite maggiori di prodotto.
Anche i pasti pronti all’uso, i buffet sempre più frequenti nei ristoranti devono essere rivisti proponendo menù sostenibili.

Altre soluzioni oltre quelle ufficiali sono state esplorate e ritenute efficaci:

- Promuovere nuove tecnologie per il controllo dei parassiti e delle malattie delle piante
- Implementare pratiche tecnologiche per il migliore utilizzo delle risorse
- Promuovere line guida per il trasporto, la raccolta e conservazione degli alimenti
- Migliorare le opportunità e correttezza commercial per ridurre gli eccessi
? Migliorare la trasparenza e lettura delle etichette
? Educare I consumatori a sprecare meno
? Promuovere soluzioni tecnologiche per migliorare la conservazione domestica dei cibi.

Sin da piccolo mi hanno insegnato a rispettare il cibo e a non sprecarlo. Ho imparato a farlo bene, anche le bucce di banana non le spreco compostandole, e le ossa sono destinate ai miei cani. Quindi sebbene il mio spreco sia prossimo allo zero le riflessioni nate da questi dialoghi informali sono un grande stimolo per impegnarmi a livello personale  in scelte più consapevoli e, professionalmente, ad indirizzare programmi di ricerca nel produrre soluzioni pragmatiche efficaci perché fruibili dagli attori della filiera.  Fatti, numeri e non propaganda.   

Ettore Capri
Centro di ricerca per lo sviluppo sostenibile (OPERA)
Università Cattolica del Sacro Cuore
Piacenza


 

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