Quale futuro per l'agricoltura? La domanda non è banale. Il settore agricolo, benché l'export (agroalimentare, però) sia in crescita, registra un fisiologico e progressivo calo occupazionale, una diminuzione del numero di aziende e stenta ad assicurare un adeguato ricambio generazionale, nonostante l'incremento di studenti nelle fila degli istituti agrari o alberghieri.

In questo contesto, in cui bisogna comunque riconoscere all'agricoltura italiana la capacità di assicurare un maggiore valore aggiunto alle produzioni di base, al confronto con altri paesi europei come Germania o Francia, si cala il gran teatro della politica italiana, che ha archiviato le elezioni politiche del 4 marzo scorso, ma non ha risolto il nodo del futuro del paese.

I consigli, i suggerimenti e gli auspici si sprecano, ma rimangono sulla stessa nota che ha suonato la musica negli ultimi anni: meno burocrazia, maggiore reddito per gli agricoltori, dialogo di filiera, difesa delle risorse della Politica agricola comune, migliorare la qualità, favorire la trasparenza, accelerare sull'etichettatura, sostenere le esportazioni di prodotti made in Italy (vanno bene anche quelli trasformati o soprattutto quelli), avere maggiore peso a Bruxelles.

Gli esiti delle urne, tuttavia, indicano un po' di incertezza. Chi ha vinto? Il partito (i 5 Stelle) o la coalizione (il Centrodestra)? Si accorderanno? E su quali basi? Chiusura delle frontiere e no euro? Visti dall'alto, potrebbero essere due provvedimenti che remano contro l'agricoltura italiana. Senza immigrati (beninteso, regolari e rispettosi delle leggi di casa nostra) non avremmo molto probabilmente chi munge le vacche, chi raccoglie l'ortofrutta e chi prende parte alla vendemmia e fuori dall'euro la vita dell'Italia sarebbe oggettivamente molto più complicata rispetto a una partecipazione più consapevole all'Eurozona. Non abbiamo mai avuto una moneta forte come la sterlina, per essere chiari.

Servono strategie in grado di rimettere in carreggiata il paese e diventa irrinunciabile un piano d'azione che porti l'Italia ad essere presente in Europa. L'ormai ex ministro Martina (l'interim alle Politiche agricole l'ha assunto, in questa fase, il premier Gentiloni) ha oggettivamente frequentato poco e con scarsa autorevolezza i tavoli di Bruxelles.

In questi anni si sono perse molte occasioni, subendo crisi di prezzi - certo, la volatilità è globale - e fallendo vetrine mondiali come quella dell'Expo, divenuta una fiera dell'agroalimentare e dei piatti esotici e non una piattaforma per difendere il made in Italy dalla piaga dell'agropirateria (che vale 60 miliardi contro i 41 miliardi esportati), per tutelare le Indicazioni geografiche e per incrementare l'export.

Quello che manca, oggi, è un ministro che abbia una visione oggettiva, ampia, chiara di dove traghettare un settore che vale sì appena il 2% del Pil nazionale, ma contribuisce insieme all'arte e al design all'immagine di un paese oggettivamente bellissimo.