Il 28 aprile 2021 si è tenuta la Conferenza Stato-Regioni, presieduta dalla ministra per gli Affari regionali Mariastella Gelmini, ed è mancata l'intesa sulla "Proposta di ripartizione del Fondo europeo per l'agricoltura e lo sviluppo rurale relativo agli anni 2021 e 2022" per un importo complessivo di oltre 3.915 milioni di euro, risorse che attendono di essere immesse nei Programmi di sviluppo rurale 2014-2020 per il loro prosieguo nel biennio di transizione verso la programmazione 2023-2027. L'ultimo tentativo di mediazione del ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli è stato bocciato dalle regioni del Sud, anche perché ricalcato su quello già respinto in sede di Commissione politiche agricole.
 

La proposta respinta il 28 aprile

La proposta bocciata il 28 aprile, in sostanza, attribuisce solo pesi diversi per anno ai criteri di riparto oggettivi di competitività reclamati dalle regioni del Centro-Nord e quelli di riparto storico, difesi da tutte le regioni in ritardo di sviluppo - Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, più l'Umbria: 90% criteri storici e 10% criteri competitivi per il 2021 e 70% criteri storici e 30% criteri competitivi nel 2022. Una mera evoluzione del criterio già bocciato in Commissione, che invece attribuiva i seguenti pesi: ripartizione nel 2021 per il 70% sulla base dei criteri storici e il 30% sulla base dei criteri competitivi e nel 2022 stessi criteri ma con proporzioni invertite.
 

Il nodo politico del riparto del Feasr

Che ne sarà ora dell'effettivo riparto del Fondo per l'agricoltura e lo sviluppo rurale tra i Programmi di sviluppo rurale delle regioni italiane? È questa la domanda che molti oggi si pongono alla luce degli ultimi paralizzanti episodi di quella che sta diventando una vera e propria battaglia dagli esiti sempre più incerti e con il ministro delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli in difficoltà.

L'ultimo elemento di fatto in ordine cronologico è l'aver sancito la mancata intesa ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997 n 281, il quale dispone che quando "l'intesa non è raggiunta entro trenta giorni dalla prima seduta della Conferenza Stato-Regioni in cui l'oggetto è posto all'ordine del giorno, il Consiglio dei ministri provvede con deliberazione motivata". E in tal caso non è prevista alcuna possibilità di successive modifiche della delibera del Governo. Mentre il ministro Patuanelli ha assicurato che nel corso di questi trenta giorni continuerà a cercare un'intesa.

Il punto vero è che non è stato azionato l'articolo 2 del decreto legislativo 281/1997, lì dove consente l'intesa a maggioranza dei presenti, posto che vi sia l'assenso del Governo e delle province autonome di Trento e Bolzano, trattandosi dell'adozione di un criterio di riparto di fondi che vanno alle regioni, seppur mediante la formula del cofinanziamento di un programma comunitario.
Molti i motivi tecnico-giuridici che possono essere stati elaborati per evitare l'assunzione di un'intesa a maggioranza e qui non meritevoli di nota. Due invece i motivi politici di tale scelta: da un lato la certezza che le regioni del Sud avrebbero proposto ricorso al Tar del Lazio contro il decreto ministeriale di riparto, dall'altro canto si è materializzata la mancanza di identità di vedute sul criterio da adottare per spartire il Feasr tra i Psr proprio all'interno del Governo.
 

Mef, non un euro in più di cofinanziamento statale

Questo ultimo elemento di fatto è certificato dall'esistenza di una nota del ministero dell'Economia e delle finanze che raccomanda l'invarianza del cofinanziamento da parte dello Stato ai Psr rispetto all'eventuale adozione di un nuovo criterio di ripartizione del fondo europeo. Ma i caricamenti del cofinanziamento statale del Psr 2014-2020 - stabiliti nella delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica n 10 del 2015 - furono concepiti in somma fissa e diversa per ogni regione ed in maniera da compensare le regioni del Nord e del Centro per l'applicazione del criterio di spesa storico sul Feasr. E anche l'ultima proposta di mediazione prevede un costo aggiuntivo per l'erario della quota di cofinanziamento di circa 44 milioni.
 

La Commissione Ue a favore del criterio storico

A ricordare poi che nulla è cambiato nel riparto dei fondi comunitari tra i territori ci ha pensato in questi giorni anche il commissario europeo all'agricoltura Janusz Wojciechowski, che ha inviato una lettera al Mipaaf affermando: "le disposizioni del regolamento 1305/2013 relative alla ripartizione della dotazione nazionale del Feasr tra i programmi regionali non sono modificati dal regolamento 2020/2022 e si applicano anche durante il periodo di transizione". Un pronunciamento autorevole e sollecitato dalle regioni del Sud e che avrebbe dovuto chiudere la partita. A questo punto il ministro delle Politiche agricole, prima di trovare qualsivoglia nuova eventuale mediazione tra le regioni, dovrebbe avere l'ok dal ministero per l'Economia e di Bruxelles, cosa non facile, viste le due prese di posizione così nette.
 

Ancora criterio storico nel 2021-2022 unica via di uscita

E' pertanto plausibile che i trenta giorni fino alla deliberazione del Consiglio dei ministri decorrano inutilmente. E l'evento più ragionevole che possa accadere in Consiglio dei ministri è che passi il criterio storico fino al 2022, per evitare non solo uno scontro interno all'esecutivo, e magari con la Commissione Ue, ma anche per sventare gli effetti di un eventuale ricorso delle regioni del Sud, che finirebbe per mandare in stallo i Psr per tutto il biennio: un potenziale disastro di cui nessuno vorrebbe poi la paternità.

Strano ma vero: esiste una sola possibile via d'uscita da questo pantano ed è quella di ridiscutere i criteri di riparto del Feasr a partire dal 2023 nel quadro di tutta la definizione della strategia nazionale sulla Politica agricola comune, proprio come richiesto dalle regioni del Sud. Se non altro è oggettivamente la via più semplice, anche se di difficile gestione da parte del ministro in carica, che si era sbilanciato verso le richieste delle regioni del Nord, le quali però hanno dimostrato scarso aggancio normativo e politico, tanto a Roma che a Bruxelles.