Angelo Moretto è quindi una fra le persone più qualificate in Italia, per approfondire temi di estrema importanza per il mondo degli agrofarmaci, pressato da un lato dalle più eterogenee istanze anti-pesticidi che si vanno moltiplicando in varie regioni italiane, dall’altro da normative sempre più restrittive e forse influenzate in modo inappropriato da un mai abbastanza precisato concetto del “Principio di precauzione”, usato talvolta come un maglio anche contro ciò che di fatto non se lo meritava. Uno di tali fronti di discussione, per esempio, sono i criteri di classificazione delle sostanze come cancerogene adottati dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, ma anche l’annosa questione degli interferenti endocrini, la cui stessa definizione, a quanto pare, andrebbe meditata con grande attenzione.
Professor Moretto, il tema degli interferenti endocrini sta occupando spazi importanti nelle discussioni sugli agrofarmaci, come pure su altre sostanze cui l’uomo è spesso esposto. Come stanno realmente le cose?
“L’interferente endocrino, di per sé, non esiste. Di fatto, l’attività endocrina può essere un modo d’azione di una sostanza. Se per esempio ho una sostanza che interagisce con il recettore dell’ormone estrogeno, oltre a un certo livello d’interazione si osservano effetti abnormi legati a questa interazione. Quindi avrò degli effetti sugli organi sessuali, maschili o femminili, o su altri apparati dell’organismo, solo quando l’interazione con il recettore ha causato, oltre una certa soglia, uno sbilanciamento del sistema di regolazione degli ormoni, che per definizione è in continuo equilibrio fra stimoli esterni e stimoli interni all’organismo ”.
Angelo Moretto, direttore del Centro internazionale per gli antiparassitari e la prevenzione sanitaria
Quindi si rischia di confondere l’azione con l’effetto?
“Esatto. Chiamare una sostanza "interferente endocrino" di per sé vuol dire assolutamente niente. Infatti è in corso una grande discussione su come definire gli “interferenti endocrini”. Perché qualsiasi sostanza potrebbe in linea di principio essere definita tale. Per esempio, se mangio dello zucchero si alterano i livelli d’insulina nell’organismo. Vi è cioè un cambiamento dell’equilibrio precedente. Un equilibrio che può quindi alterarsi in due direzioni opposte, visti i danni al pancreas di origine autoimmune che rendono l’organo incapace di produrre insulina in quantità adeguata. E quello dello zucchero è solo un esempio. Pensi se si beve un litro d’acqua: si spostano immediatamente gli ormoni che regolano la diuresi, ma non è che ciò implichi uno stato patologico, un danno. È sempre una questione di dose. Si possono quindi descrivere gli effetti, sulla tiroide, sull’utero, sulle mammelle e quant’altro, ma nel senso dell’effetto tossico. Fermarsi alla descrizione del modo d’azione per definire cosa sia o meno un interferente endocrino, non ha alcuna utilità”.
Desta quindi una certa preoccupazione la discussione attualmente in atto sui criteri da adottare per stabilire cosa sia interferente e cosa no…
“La discussione attualmente in corso è infatti su dove posizionare, per così dire, l’asticella. Un’asticella che potrebbe avere gravi conseguenze in funzione dell’altezza ove la si pone. Perché, tanto per fare un esempio, siamo arrivati all’assurdo con un agrofarmaco, un carbammato, il quale aveva tutti gli studi necessari, a breve, medio, lungo termine, cancerogenesi eccetera e che aveva anche con una dose letale abbastanza bassa: l’azienda produttrice ha dovuto eseguire una gran mole di studi, soprattutto in vitro, sui recettori di vari ormoni, sulla loro sintesi e via discorrendo. Un investimento di tempo e denaro enorme, per giungere alla conclusione che gli effetti osservati si ottenevano a dosi così elevate che se somministrate all’animale da esperimento sarebbero state ampiamente letali”.
L’annosa vicenda delle dosi tirate oltre la soglia del ragionevole, tanto da far perdere di significato i risultati dei test stessi?
“Siamo arrivati a un punto per cui si va a cercare un modo d’azione per effetti che spesso neanche si vedono. Gli studi prima citati sono stati cioè uno spreco di denaro e di tempo per chi li ha fatti, e uno spreco di tempo da parte di chi, come noi, ha dovuto leggerli e valutarli. Il modo d’azione ci può servire per capire, ma è l’effetto tossico che dobbiamo andare a cercare”.
Chiarissimo. Ma da quanto tempo si parla di endocrine disruptor? Perché ormai il tema è dibattuto fin dai tempi dei famosi Pcbs…
“Stiamo parlando di circa 25 anni fa, agli inizi degli anni '90. Iniziamo a dire che chi ha inventato il termine di ‘endocrine disruptor’, uno scienziato serio, ha passato gli anni successivi a pentirsene, consapevole delle molteplici interpretazioni che a tale nome potevano essere date. Nei periodici meeting del Jmpr [Joint FAO/WHO Meeting on Pesticide Residues, nda] se n’è iniziato a discutere all’inizio degli anni 2000. È un tema scivoloso, perché si rischia di non sapere come venirne fuori se si focalizza sui soli modi d’azione. È come dire che gli esteri fosforici, come per esempio il malathion, sono inibitori dell’acetil-colinesterasi. Lo sono anche i gas nervini se è per questo, ma il malathion ha una dose letale altissima, siamo sui 10 grammi per chilo, cioè gli animali di laboratorio non muoiono. Se invece usiamo certi gas nervini parliamo di nanogrammi o addirittura di picogrammi. Eppure il modo d’azione è esattamente lo stesso. Quindi perché dobbiamo mettere tutti insieme in base al semplice fatto che inibiscono l’acetil-colinesterasi? Perché qualcosa del genere si sta facendo con gli interferenti endocrini.
Basta che una sostanza interagisca con gli ormoni estrogeni, che di solito sono quelli più mirati, e viene considerata ‘endocrine disruptor’ anche se tali interazioni non portano ad alcun effetto negativo. Addirittura ci sono casi in cui non vengono ritenuti rilevanti per l’uomo certi effetti sulla tiroide perché secondari ad effetti su determinati enzimi epatici che danno poi effetti sugli ormoni tiroidei, facendo peraltro notare che i roditori, tipici animali da esperimento, sono anche più sensibili dell’uomo a queste alterazioni. Quindi non è un effetto di tipo endocrino, bensì metabolico al suo principio. Se si hanno cioè dosi sufficientemente alte ed esposizioni sufficientemente prolungate si hanno tali aumenti dell’attività enzimatica epatica e quindi gli effetti sulla tiroide”.
Uno dei temi al centro di aspre contese è quello dei parallelismi fra atrazina e terbutilazina. Vi è cioè il rischio che se terbutilazina viene classificata come interferente endocrino avrà vita breve.
“Il problema di atrazina e terbutilazina è anche di estrapolazione di specie. Ci sono manifestazioni diverse che si osservano negli animali da esperimento che si sa bene che hanno scarsa o nulla rilevanza, nel senso che è scarsa quando sono quantitativamente diverse e nulla quanto sono qualitativamente diverse. Per esempio, il fenobarbital è noto che causa ben precisi effetti nelle cavie. Quando si evidenziano tumori al fegato con sostanza attive come il fenobarbital, questi vengono ignorati perché si sa benissimo che tali effetti sono quantitativamente irrilevanti per l’uomo. E quando dico ‘quantitativamente’ intendo che eventuali effetti sull’uomo si potrebbero, forse, osservare a dosi 100 o 1.000 volte superiori a quelle in cui si osserva l’effetto sull’animale da esperimento. Ritorniamo quindi sempre al concetto che ha ben poco senso qualsiasi classificazione venga operata per categorie”
Come quelle per esempio dello Iarc?
“Una delle critiche che infatti muovo spesso allo Iarc, è che la classificazione per gruppi è di fatto inutile, perché non aiuta nei processi di valutazione del rischio, tranne per alcuni rari casi come l’esplosività o l’infiammabilità, certamente non per la cancerogenicità. Per la cancerogenicità, per esempio, lo Iarc ha classificato l’amianto in gruppo 1, sicuramente cancerogeno, così come le carni lavorate, ma dell’amianto è stata chiesta giustamente l’abolizione, perché gli effetti dannosi si verificano anche a dosi molto basse, delle carni no, è stato solo detto che bisogna mangiarne di meno. Quindi la classificazione, così com’è, crea solo confusione.
Se vogliamo proprio andare a cercare i risvolti quasi ironici di tale processo, lo Iarc ha classificato in gruppo 2A perfino le bevande calde (anche l’acqua calda?, NdR), se bevute a temperature superiori a 65°C. Ovviamente, non si ha più tale effetto se bevute più fredde. Cioè anche in questo caso è una questione di dosi. Perché quindi si applica il concetto di dose alle bevande calde, ma non alle altre sostanze? Abbiamo abolito l’amianto perché la dose di non effetto era praticamente impossibile da calcolare da tanto era bassa. Quindi è stato abolito, ma non perché in gruppo 1, ma perché siamo riusciti a capire che le dosi per avere neoplasie sono così basse che la valutazione del rischio sarebbe stata impossibile”.
Quindi l’abolizione o meno di una sostanza dovrebbe seguire i criteri adottati per l’amianto…
“Altre sostanze in gruppo 1 mica le abbiamo abolite. Il cadmio, per esempio, mica l’abbiamo abolito”.
Uno dei problemi che ravviso in tema di Iarc è che la maggior parte delle persone neanche sa come esso operi. Per esempio è caso recente il polverone sollevato perché lo Iarc ha classificato il glifosate “probabile cancerogeno” inserendolo nel gruppo 2A.
“Vi è un segretariato locale che identifica gli esperti sulla base delle loro competenze e l’assenza di conflitti di interessi veri o percepiti. Non mi è però chiaro cosa vogliano dire ‘conflitti di interessi veri o percepiti’, visto che il termine ‘percepiti’ è abbastanza sfuggente e scivoloso. Si scelgono quindi membri che abbiano lavorato molto sull’argomento e altri che, pur esperti in senso generale, abbiano lavorato poco sull’argomento, in modo da contare anche su persone non influenzate da preconcetti derivanti dal valutare propri studi.
Dopodiché viene operata la raccolta dei lavori disponibili, pubblicati su riviste scientifiche. Infine si giunge alla valutazione stessa che da quanto mi risulta è a maggioranza. Una valutazione che è sempre di tipo qualitativo, avendo come fine la classificazione per gruppi.
Nelle monografie si possono trovare anche alcune considerazioni di tipo quantitativo e recentemente sono stati aggiunti dei capitoli sui meccanismi, pur non andando a valutare l’effetto quantitativo dovuto agli aspetti molecolari, biochimici o cellulari, evidenziati magari in studi in vitro. Il fatto che lo Iarc lavori solo ed esclusivamente su articoli pubblicati fa però sì che su alcune molecole di derivazione industriale, come per esempio gli agrofarmaci, non vengano valutati studi coperti da brevetto, di proprietà”.
Quindi nemmeno i dossier preparati per la registrazione o per la Revisione europea.
“Nemmeno loro. Infatti, la differenza fra le valutazioni di Iarc e quelle di Efsa, Echa, Epa e Jmpr Oms/Fao, consiste nel mancato esame di questi studi, i quali hanno tre differenze fondamentali rispetto agli studi pubblicati: la prima, che vale per gli studi fatti per lo meno negli ultimi 25 anni, è che sono fatti sotto le buone pratiche di laboratorio, seguendo regole ben codificate sia per il disegno sperimentale, sia per le modalità di conduzione dello studio, di valutazione dei risultati, di archiviazione dei campioni eccetera. La seconda, è che hanno un sistema di qualità esterno che va a verificare che effettivamente siano state rispettate queste regole. Peraltro, soprattutto negli ultimi 15 anni, molti studi non sono nemmeno condotti dalle compagnie stesse, bensì da contractors esterni che talvolta neanche sanno il nome della sostanza perché viene data loro come siglato sperimentale. Terza differenza fondamentale è che chi fa la valutazione di questi studi, cioè gli organismi pubblici, hanno accesso ai dati grezzi. Cioè a tutti i dati raccolti e non solo i report finali. Se si vuole vedere per esempio che risultati ci sono per il ratto n° 4610, che ha fatto prelievi di sangue a 3, 6, 9 ,12 mesi, queste informazioni sono disponibili per ogni parametro cercato e misurato. È quasi come se il valutatore fosse presente nel laboratorio”.
Ciò però apre la strada alle critiche di inaffidabilità dei dati, perché forniti da qualcuno che direttamente o indirettamente può averli manipolati.
“Certo, uno può anche dire che i dati sono tutti inventati. Ma se è solo per questo, anche i lavori scientifici pubblicati possono contare su dati del tutto inventati. Anche perché le valutazioni peer review a fini di pubblicazione sono generalmente fatte solo sui dati sintetici, senza aver accesso ai dati grezzi. Se sorge un dubbio circa un effetto al fegato, coi dati grezzi io posso magari cercare correlazioni con gli effetti misurati su altri organi. Con gli studi pubblicati, invece, se non si vedono effetti rilevanti in un dato organo magari non li cita neanche nel lavoro finale da pubblicare. Queste sono le differenze fondamentali.
Per esempio su glifosate c’erano 17 studi sperimentali sulla cancerogenesi su animali. Alcuni erano o molto vecchi o comunque particolari per le modalità di esecuzione. Non è che però si può dire che una sostanza è cancerogena dopo che, per dire, si sono scartati 5 lavori su 17 perché inadatti, poi si sono osservati sospetti eccessi di incidenza di neoplasie in 2 e allora si conclude che la molecola è cancerogena. Bisogna avere la visione d’insieme, cercando di capire quali erano questi tumori, quanti erano, se il dato era ripetibile in più studi, più tutta una serie di questioni, quali la presenza di altre lesioni collegabili alle neoplasie. Infatti, chiunque oltre allo Iarc abbia svolto valutazioni su glifosate ha concluso che non vi erano evidenze di cancerogenicità, proprio perché hanno valutato tutti gli studi disponibili, studi di cancerogenesi e tutti gli altri studi di tossicità (a breve termine, di riproduzione, di teratogenesi eccetera). Tenendo conto inoltre che per il glifosate non vi è evidenza di genotossicità. Parlo della sostanza attiva, perché i formulati commerciali sono tutta un’altra storia”.
Non a caso una delle critiche maggiori mosse allo Iarc è di aver basato molto della sua valutazione sul glifosate su test svolti ad alte dosi e con formulati commerciali, per giunta di vecchia concezione come quelli che avevano ancora le tallow-amine.
“Una delle differenze che separa lo Iarc da tutti gli altri è che non ha chiaramente distinto i dati che si trovano sulla sostanza attiva e quelli sui formulati commerciali. Un problema non da poco, soprattutto pensando che dopo che è scaduto il brevetto di Monsanto si sono moltiplicate le formulazioni dei generici. In tal senso, soprattutto nei Paesi a basso grado di industrializzazione e a basso reddito, la qualità dei generici, soprattutto di quelli a costi più bassi, non è garantita.
Glifosate è peraltro una molecola che viene assorbita pochissimo e viene eliminata quasi tutta con le urine, tal quale. Guardando la tossicocinetica e le modalità di eliminazione, se glifosate fosse una molecola nuova, verrebbe accettata senza problemi. Per esempio, se fosse una sostanza per dipingere le seggiole, farebbero qualche studio di tossicocinetica, qualche lavoro sulla genotossicità, qualche esperimento sulla tossicità a breve termine e sarebbe finita lì. Una sostanza come glifosate, che dal punto di vista biologico è praticamente inerte, non avendo bersagli nei mammiferi, non desterebbe preoccupazioni”.
E poi esiste quel parametro troppe volte trascurato che è l’ADI, ovvero l’acceptable daily intake.
“Pensi che il Noael [No Adverse Observable effect level, livello di assenza di effetto nell’animale da esperimento, nda], da cui si ricava l’ADI dividendo tale valore per cento, è stato fissato dal JMPR (0-1 mg/kg di peso corporeo al giorno) basato su effetti sulle ghiandole salivari, che molto probabilmente, sono banalmente dovuti al fatto che a quelle dosi così elevate il glifosate è irritante in bocca. Negli studi di cancerogenesi hanno somministrato dosi corrispondenti fino a 500 grammi per un individuo adulto di 70 chili al giorno. Uno degli studi a dosi più elevate è stato infatti effettuato a 50.000 ppm somministrati con la dieta, cioè il 5% della dieta era formato da glifosate”.
Nonostante ciò, questa molecola rischia di essere bocciata. Perché se viene respinta, è un biglietto di sola andata per il bando definitivo. Ma, non esiste un modo, magari per l’Oms, di prendere in mano tutta la pratica, gravata come si sa da fin troppi “papers” e dire allo Iarc di rifare la monografia?
“Qui si entra più nella politica che altro. Da quello che mi risulta, però, l’Oms non ha strumenti per richiedere allo Iarc una tale revisione. L’Agenzia è indipendente, ha un suo budget, peraltro messo a disposizione da pochi Stati, fra cui l’Italia, mentre l’Oms è finanziato da quasi tutti i Paesi dell’Onu. Ma una cosa che va detta è che l’Agenzia fa complessivamente un grande lavoro. Il budget per le monografie non arriva al 10% del totale, di cui circa la metà deriva da fonti esterne che sono per lo più statunitensi. Non a caso negli Usa è in corso una polemica su come lo Iarc abbia speso questi soldi, con un’interrogazione dei senatori repubblicani. Il restante 90% viene impiegato per svolgere attività il cui valore è riconosciuto dagli esperti nel campo, come il coordinamento per definire i criteri per le diagnosi istologiche, le classificazioni dei vari tipi di neoplasie, per le attività di screening per le neoplasie prevenibili, attività utili in special modo nei Paesi a basso reddito. Quindi la parte dedicata alle monografie è una parte autonoma all’interno di un’Agenzia essa stessa autonoma”.
Concludiamo quindi l'intervista ad Angelo Moretto, meditando su quanto la tossicologia sia argomento da esperti di comprovata esperienza e dotati, soprattutto, di grande buonsenso. Un buonsenso che invece pare sempre più infiltrato da soggetti sul cui ruolo l'intera società civile, e la politica, dovrebbero iniziare a interrogarsi.