L’Italia è in stagnazione e il Pil non aumenta ormai da tre anni, ovvero dal 2° trimestre del 2011. Pezzi consistenti dell’economia stanno reagendo alla crisi e alle difficoltà “immergendosi” e alimentando quel sommerso strutturale che è una caratteristica del nostro Paese. Si tratta di una “immersione da sopravvivenza”, dell’apnea di una “economia anfibia” che potrà essere recuperata solo attraverso chiari segnali sul fronte della riduzione della pressione fiscale e di profondo cambiamento delle politiche del lavoro.
"I dati della ricerca mostrano che il lavoro nero e irregolare rappresenta per l’Italia, molto più che per gli altri paesi europei, una realtà grave e di ampia dimensione con la quale il Paese deve fare i conti e deve farli in fretta - nota Stefano Mantegazza, presidente della Uila (Unione italiana lavori agroalimentari), nella tavola rotonda “#sottoterra - indagine sul sommerso in agricoltura” durante il V congresso nazionale - Non possiamo permetterci di presentarci all’appuntamento di Expo 2015 con un’agricoltura che nel definirsi “di qualità”, nasconde dietro di sé un’incidenza di oltre il 30% di lavoro nero o irregolare. Occorre che governo e parlamento diano un segnale forte e chiaro in tal senso, trasformando in legge la proposta unitaria di Fai-Cisl, Flai-Cgil e Uila-Uil, che mira a realizzare una “rete del lavoro agricolo” per promuovere e gestire l’incontro domanda-offerta di lavoro in un quadro di trasparenza e incentivazione per le imprese virtuose".
“Per eliminare dal mercato tali prodotti – ha spiegato Mercuri – è indispensabile responsabilizzare tutta la filiera dal produttore al consumatore. Si potrebbe far ricorso ad appositi strumenti di certificazione etica, rilasciata non da enti terzi ma dagli attori dell’ultima fase della filiera che immettono il prodotto sul mercato”.
L’agricoltura europea
L’azione dell’Unione europea è orientata oggi nella direzione di espandere l’economia agricola. Nonostante la diffusa percezione di un inesorabile declino dell’occupazione in generale, questo settore produttivo non sembra avere risentito in modo evidente della crisi economica che ha funestato il continente europeo, registrando una variazione pressoché nulla in termini di valore aggiunto rispetto al 2007, a fronte di una decisa contrazione del settore industriale. La percentuale di soggetti impiegati nel settore dell’agricoltura si è mantenuta stabile dal 2007 al 2012, mostrando una discreta capacità del settore di assorbire i contraccolpi della crisi (-0,3% per l’UE-27), salvandosi dal crollo occupazionale che ha invece coinvolto il settore industriale (-2,3%).
L’Europa a 28 ospita più di 12 milioni di imprese agricole di dimensioni più o meno rilevanti e crea un mercato agricolo caratterizzato dal cosiddetto “nanismo imprenditoriale”, occupando mediamente 2 persone per azienda. La notevole discrepanza nell’UE-28 tra numero di occupati e numero di ULA (unità di lavoro agricole) nel settore agricolo suggerisce un frequente ricorso al lavoro part-time o di carattere occasionale, sia stagionale che non. Infatti, gli oltre 25 milioni di soggetti impegnati a vario titolo nel settore agricolo nell’Ue nel suo complesso corrispondono a meno di 10 milioni di Ula. I paesi mediterranei (Italia, Malta, Cipro, Croazia, Grecia) e centro-orientali (principalmente Romania e Ungheria), mostrano una discrepanza tra numero di impiegati e di Ula in un rapporto di 3 o anche 4:1, il che indica che lavoro part-time e lavoro stagionale rappresentano una pratica diffusa in questi paesi.
L’agricoltura italiana
In Italia, la superficie agricola utilizzata è pari a circa 12 milioni e 750mila ettari. Le aziende agricole ammontano al 2012 a 1.618.000 e realizzano una produzione di 42,6 miliardi di euro (+2,4%) ed un valore aggiunto di 23,8 miliardi (+2%). Le unità di lavoro annue (Ula) occupate nelle aziende agricole italiane sono 969.000, 190.000 delle quali dipendenti (+2,2%). Nel 96,7% dei casi si tratta di imprese individuali, il 97,9% è a conduzione diretta. Il fatturato, nell’89,5% delle aziende agricole nazionali, rimane al di sotto dei 50.000 euro. L’11,4% produce esclusivamente per l’autoconsumo. Le aziende multifunzionali costituiscono l’11% del totale, ma la loro produzione raggiunge il 27,9% del totale nazionale e le Ula da loro occupate ammontano al 19,7% del totale.
La geografia del lavoro sommerso
Come emerso dal Censimento Istat dell’agricoltura del 2010, in 10 anni la forza lavoro nel settore agricolo è diminuita del 50,9%, a favore della manodopera salariata, passata dal 14,3% al 24,2%. Le giornate/uomo mediamente lavorate risultano in aumento: da 42,3 a 64,8 l’anno. L’Istat sottolinea anche una variabilità territoriale quanto a irregolarità occupazionale: il primo posto spetta al Mezzogiorno dove il tasso supera la soglia del 25% (Campania e Calabria in testa). Esemplare il caso della Puglia. Secondo la Direzione regionale del lavoro nel 2013 è risultata in nero la metà dei lavoratori delle aziende sottoposte ad ispezione; tra le aziende agricole la quota varia dal 70% nella zona del Salento al 54% nella provincia di Bari, al 40% in quella di Foggia. Le irregolarità riguardano nella gran parte dei casi anche il salario, che generalmente ammonta alla metà di quello previsto dai contratti.
La manodopera familiare è utilizzata nella quasi totalità delle aziende agricole italiane e copre il 76% della manodopera complessiva. I settori in cui è più diffuso il lavoro sommerso (lavoro domestico, servizi di cura, costruzioni, agricoltura) sono anche quelli in cui è più elevata la presenza di lavoratori migranti. Il numero di cittadini stranieri occupati in agricoltura è in costante crescita rispetto al passato, per un totale pari a circa 42.000 unità in più rispetto al 2010 (Inea, 2012), e sono questi ultimi a rappresentare la quota più consistente dei lavoratori irregolari nel settore agricolo. La manodopera straniera mostra caratteristiche di stabilità della presenza, sebbene sia una tipologia di lavoro principalmente stagionale, caratterizzata da una forte mobilità. D’altra parte, se fino a poco tempo fa erano soprattutto gli immigrati a lavorare in condizione di vero e proprio sfruttamento nelle coltivazioni, adesso, come conseguenza della crisi economica, sono sempre più numerosi gli italiani costretti dalla disoccupazione a cercare un impiego nei campi. Si tratta di operai, ma anche di figure ex impiegatizie, italiani approdati nel settore agricolo per necessità, dopo la chiusura di fabbriche, imprese o dopo un licenziamento o una drastica riduzione dello stipendio.
La semi schiavitù dei braccianti è una condizione reale nei campi di raccolta italiani, con paghe ben al di sotto di quanto previsto dai contratti nazionali e decisamente misere rispetto all’impegno richiesto. C’è chi riceve 20 euro al giorno in nero, per 12 ore al giorno di lavoro nei campi dall’alba al tramonto, corrispondenti a 1,60 euro l’ora, un quinto del minimo sindacale, chi 1,90 euro l’ora dalle 5 della sera alle 5 del mattino, chi 35 euro al giorno per raccogliere le ciliegie o 38-40 euro al giorno come bracciante nei campi. I lavoratori in nero dei campi di tanta parte del territorio italiano sono dunque i nuovi schiavi. Isolati ed invisibili, vivono spesso in baraccopoli che costituiscono veri e propri ghetti.
Considerando il limitato impatto del settore agricolo in termini di valore aggiunto, e la modesta redditività di tali attività, specie quando sono condotte su scala individuale-familiare, la soluzione ideale per un’impresa agricola consiste nel rendere il lavoro un fattore che varia con il livello di produzione, e non più un costo praticamente fisso, allo scopo di massimizzarne la produttività. La stagionalità di molte colture tende quindi a ripercuotersi a sua volta sul mercato del lavoro agricolo. Si crea quindi il rischio di innescare un circolo vizioso che sistematizza un rapporto di lavoro basato sull’informalità, ad esempio subappaltando ad agenzie, legali e illegali, il reclutamento della manodopera necessaria di giorno in giorno.
L’appetito della criminalità per il settore agricolo
L’agricoltura è diffusamente riconosciuta come uno dei comparti economici maggiormente caratterizzati dal fenomeno del lavoro informale o non dichiarato. Il lavoro sommerso si traduce quindi in qualsiasi attività retribuita la cui natura è legale ma il cui svolgimento non è dichiarato alle pubbliche autorità competenti. Rientrano in queste attività: il mancato o parziale pagamento di imposte contributi di sicurezza sociale; la segnalazione parziale delle proprie attività lavorative; la mancanza di requisiti, da parte dei dipendenti, per svolgere il proprio lavoro conformemente alla normativa nazionale. Tra l’altro, l’agricoltura, congiuntamente al settore delle costruzioni, rappresenta una delle attività economiche caratterizzate da un significativo utilizzo di forme di sub-appalto e di falso auto-impiego. Inoltre, in virtù delle possibili contaminazioni con soggetti criminali, specialmente nell’ambito della fornitura di manodopera agricola stagionale, il confine tra attività legali di per sé ma formalmente illegali e attività illegali tout court diventa particolarmente labile, soprattutto in settori come quello agricolo, tra i più esposti alla piaga dello sfruttamento del lavoro coatto, assieme al settore delle costruzioni e dei lavori domestici. Il tema dell’economia criminale si intreccia quindi con il problema del sommerso soprattutto nel settore dell’agricoltura. Le organizzazioni criminali cercano di controllare pezzi sempre più ampi del comparto agroalimentare, in tutta la sua filiera, dai campi agli scaffali. E ciò avviene attraverso l’accaparramento dei terreni agricoli, il caporalato, lo sfruttamento dei clandestini, le truffe a danno della Ue, l’intermediazione dei prodotti, il trasporto e lo stoccaggio fino all’acquisto e all’investimento nei centri commerciali. Tutti i passaggi utili alla creazione del valore vengono quindi intercettati e colonizzati. L’Eurispes ha stimato il volume d’affari complessivo dell’agromafia in circa 14 miliardi di euro: solo due anni fa questa cifra si attestava intorno ai 12,5 miliardi (1° e 2° Rapporto Agromafie).
La proposta di Fai-Flai-Uila
In questo quadro, la proposta di legge unitaria avanzata da Fai-Cisl, Flai-Cgil e Uila-Uil, si presenta come un progetto innovativo e senza precedenti nel panorama europeo, nonché potenzialmente capace di rivoluzionare il mercato del lavoro agricolo italiano.
Questo progetto di legge, che si propone di contrastare l’intermediazione illecita e l’impiego illegale della manodopera in agricoltura e di favorire un migliore e più trasparente incontro tra domanda e offerta di lavoro, ha come proprio caposaldo la creazione di una “rete del lavoro agricolo” che promuove l’incontro domanda-offerta di lavoro.
Alla Rete sono iscritti sia i lavoratori che cercano lavoro, sia le aziende che assumono manodopera e che rispettano leggi sociali e contratti di lavoro. Ad esse viene rilasciato un marchio denominato “lavoro di qualità”, da utilizzare nei rapporti amministrativi e commerciali. Solo ad esse sono riconosciute le agevolazioni contributive e fiscali previste dalla legislazione vigente.
Come ulteriore incentivo per l’adesione alla rete viene istituito un credito d’imposta pari ad un euro per ogni giornata dichiarata, finanziato da un apposito Fondo costituito con i proventi delle sanzioni per evasioni contributive e fiscali e violazioni delle norme sul lavoro.
Una proposta di grande semplificazione degli adempimenti amministrativi in capo alle aziende relativi all’instaurazione e cessazione del rapporto di lavoro e delle comunicazioni di manodopera, e delle procedure di costruzione della posizione previdenziale del lavoratore, in quanto tutto avviene in modo automatico e controllabile da ciascun soggetto interessato. È la costruzione di un “circolo della legalità”, al quale “conviene” partecipare per gli aspetti sia contributivo-fiscali che commerciali. È un valore aggiunto che certifica la qualità del lavoro e delle produzioni; per il made in Italy e i consumatori la garanzia della sicurezza alimentare di ciò che si commercializza e si consuma.
Con il decreto-legge n. 91/2014, cd. “#Campolibero” la proposta è stata recepita, però, solo in parte, prevedendo l’istituzione della Rete ma lasciando fuori le parti sociali dalla possibilità di un effettivo monitoraggio sull’incontro tra domanda e offerta di lavoro regolare. Rispetto alla proposta originale di Fai, Flai e Uila, mancano sia gli incentivi fiscali e contributivi per i datori, sia quelli per i lavoratori immigrati che intendano denunciare i datori di lavoro che occupano illegalmente manodopera. Successivamente è intervenuta la legge di conversione n. 116/2014 che, in materia di mercato del lavoro agricolo, non ha apportato modifiche sostanziali a quanto già previsto. Ancora una volta, un’occasione persa.
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Fonte: Agronotizie