C'è un vecchio adagio che i giornalisti più navigati amano ricordare ai giovani colleghi della redazione: se il cane morde l'uomo, non è una notizia. Se invece è l'uomo a mordere il cane, quella sì è una notizia. Mi è tornato in mente ieri sera quando cercavo nella cronaca qualche spunto per un editoriale.

E' stato un lavoraccio. Non perché mancassero dichiarazioni e annunci, fiere e convegni: la qualità delle eccellenze made in Italy al Salone del gusto di Torino e la crisi del latte alla Fiera di Cremona; la necessità di dare una prospettiva ai giovani agricoltori e l'incapacità dell'Italia di utilizzare i fondi comunitari.
Per non parlare delle mille insidie di una riforma Pac che si annuncia matrigna per gli agricoltori italiani.
Per carità, tutti temi importanti, sui quali c’è come una frenesia ossessiva, ripetuti a ogni pié sospinto. Catalogabili - come direbbe il mio vecchio caporedattore - nella categoria del cane che morde l'uomo.

A togliermi dall'imbarazzo, in tarda serata, ci ha pensato un comunicato del ministero delle Politiche agricole che annunciava la firma dell'accordo interprofessionale tra produttori e trasformatori di patate.
Cercherò di spiegare perché l'umile patata (di cui sono un gran consumatore) merita un commento e anche un plauso. Anzi, un solenne elogio.

Già la firma di un accordo interprofessionale è di per sé un fatto importante, se si considera che in altri settori produttivi ben più rilevanti, penso a esempio al latte, allevatori e industriali non riescono nemmeno a sedersi intorno a un tavolo.
Il tanto sospirato gioco di squadra, da tutti sbandierato come l'obiettivo del domani, nel settore della patata da industria rappresentata una realtà operativa che dura da molti lustri.
L’intesa è stata infatti sottoscritta da tutte le associazioni dei produttori, dalle centrali cooperative e dalle due Associazioni dell'industria privata, l'Aiipa che opera nel Nord e dall'Anicav che ha il suo baricentro nelle aree produttive del Mezzogiorno. Un fronte unitario che, a esempio, il pomodoro non riesce ad esprimere.

Per quanto riguarda i contenuti, l'intesa prevede una forbice di prezzi indicativi che oscilla da un minimo di 102 euro per tonnellata a un massimo di 150, in funzione delle fasce di qualità.
Inoltre, per la loro determinazione si tiene conto dei costi di produzione, un parametro che finora non è stato mai tenuto in considerazione nel panorama dei pochi accordi interprofessionali che sono ancora in circolazione. Anzi, molto spesso, proprio questo aggancio della remunerazione della materia prima ai costi produttivi rappresenta un ostacolo allo sviluppo di accordi di filiera.
Fissato anche l'obiettivo di produzione, con un quantitativo minimo di 170 mila tonnellate, pari a circa il 10% dell'intera produzione nazionale di patate. Non un settore di nicchia, quindi, ma volumi importanti da vero business, visto che il valore della Produzione lorda vendibile si aggira intorno ai 700 milioni di euro.

Qual è il segreto di questo successo? Certo, la polarizzazione produttiva concentrata in alcune aree ad alta specializzazione e lo sviluppo di un associazionismo efficiente sono due pilastri di questo modello.
Ma c’è un terzo elemento, forse poco conosciuto, che merita qualche considerazione in più: l’intero settore non incassa un euro bucato della montagna di aiuti diretti elargiti dalla Pac.

Escluso dal circuito dell’assistenzialismo comunitario, ha dovuto imparare molto prima di altri settori, compreso quello ortofrutticolo, a organizzarsi per competere sul mercato camminando con le proprie gambe. Riceve, è vero, un aiuto nazionale di alcuni milioni, che non vanno però nelle tasche dei produttori, completamente investiti per la causa comune: stoccaggio privato per dosare meglio l’offerta, ricerca di nuove varietà, servizi di assistenza tecnica e logistica. Insomma, un approccio market oriented.

Con la riforma della Pac in fase di negoziato, anche la patata dovrà ora arrendersi ed entrare nell’elenco dei beneficiari futuri per effetto del premio unificato. La filiera avrebbe preferito lo status quo – meno soldi, mani più libere per organizzarsi e operare – ma la legge della regionalizzazione, per ora, sembra non concedere eccezioni. 

Il nuovo accordo interprofessionale ha tenuto anche a battesimo la nuova normativa sui rapporti commerciali sancita dall'articolo 62 sull'obbligo dei contratti scritti e dei tempi di pagamento.

Un richiamo esplicito che deve essere piaciuto molto al ministro Catania, che non ha mancato di tessere le lodi dell'accordo interprofessionale: "Strumento di crescita per gli operatori del settore che hanno dimostrato di essere responsabilmente attivi nella gestione delle relazioni commerciali. Questo comparto può vantare un’esperienza organizzativa modello, proprio perché consente di avere una filiera integrata che va dall’agricoltore alla trasformazione con passaggi che hanno consentito di recuperare valore aggiunto lungo le sue fasi”.

L’elogio del ministro è un importante riconoscimento dei valori finora espressi. Ma ora la filiera si augura che se ne tenga conto anche nella grande battaglia che la delegazione italiana ha ingaggiato nel negoziato sulla riforma Pac, con la quale punta a dare un bonus più sostanzioso a quei settori (a esempio tabacco, riso e pomodoro) che storicamente hanno beneficiato di premi molto più elevati.

Quel bonus, per motivi di equità, andrebbe riconosciuto anche a chi storicamente non ha mai incassato un euro, ma la credibilità se l’è guadagnata sul campo.