"La Politica Agricola Comune? Era diventata una sorta di enorme reddito di cittadinanza, tanto che si pagavano gli agricoltori per non coltivare o per coltivare meno, prevedendo il set aside e le aree incolte. Adesso con la guerra in Ucraina si è capito che bisogna mettere gli agricoltori nelle condizioni di coltivare il più possibile e il meglio possibile.
Spero che la guerra spazzi via la dimensione ideologica che stava dentro la Pac. Questo non significa che non bisogna essere sostenibili, che non si debba operare nel miglior modo possibile per coniugare produttività e rispetto dell'ambiente, ma con la previsione di arrivare a essere più di 9 miliardi di persone sul Pianeta entro il 2050, non possiamo neanche dire ai contadini di non coltivare".
Parole chiare e lapidarie quelle del professor Alberto Grandi, docente di Storia dell'Alimentazione e Storia dell'Integrazione Europea all'Università di Parma e preside alla Facoltà di Economia.
Sa di essere al limite del brusco, ma è il suo carattere e ogni tanto si scusa e si chiede se non è stato un po' troppo duro nell'esprimere un concetto, tanto più su un tema come la Pac o il cibo, che nella Food Valley e in generale in Italia è preso molto seriamente.
In ogni caso il professor Grandi non indietreggia di un millimetro in quella che è la sua battaglia contro i luoghi comuni e le ideologie, che lo hanno portato prima a scrivere per Mondadori il libro "Denominazione di Origine Inventata" e poi a proseguire a smontare i falsi miti della cucina italiana in un podcast insieme al giornalista Daniele Soffiati - giunto alla seconda serie - che ha scalato le classifiche di ascolto.
Prima del cibo, l'agricoltura. Lei ha detto che è ora di finirla con le ideologie. A cosa si riferisce, se restiamo nel campo agricolo?
"Sono contro le battaglie inutili: no al gifosate, no agli Ogm, ma basta! Non servono i no figli di battaglie ideologiche. Dobbiamo poter fare ricerca e verificare se i risultati sono o meno idonei, se portano vantaggi, quale impatto hanno. Non ha senso dire no a tutto, senza alcuna sperimentazione. Siamo di fronte a persone che dicono no a uno strumento prima ancora che al risultato finale e questo non è accettabile.
Dobbiamo continuare a fare quello che è stato fatto negli ultimi 10mila anni di agricoltura: selezionare specie di piante e razze animali in base alla produttività, per aumentare le rese e ridurre i costi e gli sforzi. Ritengo che anche oggi debbano essere queste le linee da adottare, senza preconcetti e senza ideologie. Se si evidenzieranno dimensioni di pericolosità nei risultati della ricerca, solo allora si andrà avanti diversamente e si cercheranno altre soluzioni, ma non dobbiamo pensare a ritornare al passato. Quando gli abitanti sulla Terra erano meno di 1 miliardo c'era lo stesso gente che moriva di fame, non possiamo dipingere il passato come l'Eden.
Fino a qualche anno fa potevamo celebrare il biologico come modello produttivo, ma era impensabile eleggerlo a modello di sistema. Anche perché oggi ci siamo resi conto che tutto il mondo è in difficoltà, perché due Stati coinvolti in una guerra, uno perché è aggredito, l'altro perché è in mano a un pazzo, esportavano il 30% del grano mondiale. Non va bene".
Lei sostiene che la proliferazione di marchi locali, territoriali e regionali rappresenti un indebolimento del sistema delle indicazioni geografiche, costituito prevalentemente da Dop e Igp. Potrebbe spiegare meglio questo concetto? Ritiene che debbano essere ridimensionati altri marchi, come i Prodotti Agroalimentari Tradizionali, le Deco andrebbero abolite o ridimensionate?
"Al netto del mio giudizio sulle Dop e Igp, che sono forse troppe, ma relativamente alle quali c'è un disciplinare, l'attenzione deve essere forse spostata sugli altri marchi, che fanno solo confusione. Con una Deco, una denominazione comunale, nessuno ti controlla, non serve a niente e non vale niente e chiedo scusa per la durezza di un concetto di cui sono convinto. Poi ognuno fa quello che ritiene e se dei produttori vogliono chiedere di ottenere una denominazione possono farlo, se ovviamente ci sono le condizioni.
Invito a leggere un libro di Michele Fino, intitolato Gastronazionalismo, che è illuminante e fa vedere che molti prodotti agroalimentari, dopo aver ottenuto il riconoscimento Dop e Igp, hanno avuto un danno anziché un beneficio, perché il marchio rappresenta anche dei costi, serve massa critica per sostenere l'ente certificatore, servono azioni di marketing e non è automatico avere successo sul mercato. Il libro fa l'esempio della Focaccia di Recco, ma ce ne sono anche altri. D'altronde, lo dicono i numeri stessi. Quando sono quattro, cinque i prodotti che tirano sul mercato internazionale, allora bisognerebbe prendere atto che la ricerca delle denominazioni è fine a se stessa e non dà riscontro economico. Tolto il Prosciutto di Parma e quello di San Daniele, quante sono le Dop che hanno un disciplinare pressoché identico, con solo il luogo di produzione che cambia? Ma a cosa serve tutto ciò?".
Alcune di queste posizioni sono state raccontate nel podcast "Doi - Denominazione di Origine Inventata", condotto con Daniele Soffiati. Si aspettava un simile successo?
"Sono soddisfatto e non me lo aspettavo minimamente, in tutta sincerità. Siamo online con un secondo ciclo di puntate, in collaborazione con il Gruppo Gedi. Il mix vincente è dato, secondo me, prevalentemente da due elementi: da un lato i contenuti e dall'altro è la formula che ha trovato Daniele Soffiati: un dialogo con domanda e risposta e che ha reso le puntate molto dinamiche e facilmente ascoltabili. La formula ha funzionato. Diciamo un sacco di cose scomode. Ci sono state molte reazioni piccate, anche scomposte, ma ha prevalso la voglia di approfondire. La narrazione sulla mitologia del cibo italiano, in maniera acritica, ha stufato. C'è bisogno di approfondimento e di non fermarsi alla prima stazione".
Un esempio di questa narrazione mitologica?
"Recentemente su la Repubblica è apparso un articolo in cui si raccontava che lo speck ha 5.300 anni, perché è stato ritrovato nello stomaco di Ötzi, l'uomo del Similaun. Quando ho scritto il libro Denominazione di Origine Inventata nel 2018, scrissi provocatoriamente che Ötzi era il primo chef stellato in Italia, perché aveva mangiato carne affumicata di stambecco prima di morire. Capisco che queste narrazioni siano suggestive, ma per un lettore un po' più smaliziato non stanno in piedi".
È però innegabile che l'agroalimentare italiano nel mondo abbia successo: è ricercato, apprezzato e pure imitato. Parliamo di 52 miliardi di euro di prodotti made in Italy esportati nel 2021.
"Sì, certo. Non metto in discussione il successo e nemmeno la qualità delle produzioni. Non dimentichiamo però che noi fino a cinquanta, sessanta anni fa eravamo un popolo di emigranti, adesso siamo protagonisti di una cucina a livello internazionale, che il mondo guarda con ammirazione, con prodotti imitati da tutti. È lodevole. Nel giro di poco tempo ci siamo costruiti un primato e ci siamo riusciti nel vino, nei formaggi, un terreno in cui la Francia sessanta anni fa era un benchmark e noi, come Italia, eravamo indietro anche di un secolo. Ne ho parlato anche durante il ciclo di conferenze che ho tenuto all'Accademia Virgiliana sulla storia della cucina mantovana".
Che cosa possiamo imparare dai francesi?
"Noi stiamo cercando di competere con i francesi e credo sia un po' l'errore e un po' la strada obbligata da seguire. E lo facciamo mettendo sul tavolo la carta della storia, della tipicità e della tradizione, che è in parte inventata. Perché partiamo da una condizione di sudditanza con i francesi. Non è così la questione. Noi possiamo vantare delle produzioni che hanno più di 5mila anni, ma i francesi riescono a vendere meglio, perché puntano tutto sulla qualità. E parliamo di una qualità che è vera, presunta o percepita. E lo dice uno che mangia qualsiasi cosa, anche se prediligo la cucina italiana".
Come sta cambiando l'alimentare?
"Parto da un concetto espresso recentemente da Oscar Farinetti, il quale sosteneva che tutta la produzione italiana deve arrivare ad essere biologica. Francamente, io non sono d'accordo. Dobbiamo al contrario fare in modo che tutta la produzione sia sostenibile, anche quella convenzionale. E abbiamo bisogno di sperimentare: non possiamo avere paura della scienza, semmai valuteremo l'efficacia dei risultati ottenuti, ma non credo che il tema vada oltre le indicazioni geografiche, perché c'è una produzione di base che deve essere garantita e di qualità per tutti, che deve essere sostenibile e finalizzata a una popolazione mondiale in crescita.
Parallelamente, vi è lo spazio per una linea di produzione di altissima qualità, estremamente di nicchia, destinata a un consumatore più ricco e interessato ad altre variabili che non siano solo quelle della sicurezza alimentare e della qualità. Il controllo sulla qualità deve essere stringente, riguardare i diversi passaggi della filiera, e deve naturalmente avere un'adeguata remunerazione".
Come sarà il cibo del futuro?
"Posto che io insegno storia e dunque cose che sono già avvenute e non che avverranno, mi permetto di ricordare che il tema più attuale sono gli 8 miliardi di esseri umani che presto saranno sulla Terra. Dobbiamo quindi trovare una soluzione affinché tutti possano avere accesso al cibo e la produzione abbia il minore impatto possibile.
La ricerca genomica anche per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici va bene, così come i cosiddetti new food possono essere una risposta; con questo so benissimo che possono piacere o non piacere, ma non dobbiamo temere come italiani se arrivano sulla tavola i grilli o i lombrichi, perché è un'alternativa per un certo tipo di consumatori e ragionevolmente avranno un loro mercato, diverso dalle indicazioni geografiche. Dobbiamo guardare avanti, non indietro".