Al convegno, che si è tenuto nella splendida cornice di villa Montepaldi, sede dell’azienda agricola sperimentale dell’Università di Firenze sulle colline del Chianti Classico, hanno parlato i vari protagonisti del progetto, illustrando i risultati e il lavoro fatto per raggiungerli.
Così la professoressa Lisa Granchi, con una vera e propria piccola lezione accademica, ha definito cosa si intende per lieviti autoctoni, un concetto che parrebbe scontato, ma non lo è. Per la professoressa si può considerare autoctoni quei lieviti che non hanno subito una selezione artificiale specifica e si trovano spontaneamente in un determinato habitat, dove spesso risultano particolarmente adatti a proliferare.
E l’habitat dei lieviti da tenere in considerazione è la cantina. Un concetto che apre anche un’interessante questione: quale è il ruolo dei lieviti autoctoni nella caratterizzazione geografica di un vino? Cioè un vino, magari a denominazione di origine, trova o può trovare la sua identità anche dai lieviti autoctoni che si trovano in quel territorio, o meglio ancora, proprio in quella cantina?
In molti risponderebbero sì d’acchito a queste domande, ma la questione invece è aperta. La definizione di terroir dell’Oiv, ad esempio, non prende in considerazione i lieviti tra i fattori che legano un vino a un territorio.
In uno studio condotto dall’Università di Firenze su sette cantine dislocate da Nord a Sud della Toscana che non usano lieviti selezionati, dalla zona del Candia a Massa, a quella del Brunello, la professoressa Granchi e i suoi collaboratori hanno trovato che in ogni azienda esistono 2-3 ceppi autoctoni prevalenti.
In alcuni casi, come in una cantina di Chianti Classico e in una a Montalcino, si ritrovava un solo ceppo prevalente che costituiva oltre l’80% dei lieviti presenti nel mosto in fermentazione. Ceppi che si ritrovano nella stessa cantina di anno in anno, magari con prevalenze diverse, segno che quei ceppi sono particolarmente adatti a quell’ambiente.
Da queste basi parte il progetto Vicastart, dove sono stati ricercati i lieviti autoctoni della cantina sociale Vicas, selezionati i migliori e utilizzati per le vinificazioni. In particolare, come ha spiegato la dottoressa Eleonora Masi dell’Università di Firenze sono stati individuati 22 ceppi autoctoni, e di questi, dopo prove di micro e meso vinificazioni ne sono stati scelti due da riprodurre e da usare nelle prove di vinificazione su scala industriale, su masse di 25 e di 100 ettolitri, con risultati interessanti.
Per riprodurre i lieviti è stato utilizzato un prototipo di fermentatore messo a punto nel corso del progetto e che fa parte dei risultati del progetto stesso: infatti uno degli obiettivi era anche quello di realizzare una tecnologia per poter riprodurre autonomamente i lieviti direttamente in azienda.
Il prototipo, illustrato dal professor Alessandro Parenti dell’Università di Firenze, è costituito da un fermentatore di acciaio inox da 500 litri, dotato di un sistema di sterilizzazione a Uv dell’acqua in entrata e di un dosatore dei nutrienti e di ossigeno interamente automatizzabili che permettono il funzionamento della macchina in autonomia, magari di notte, una volta programmata. In uscita poi un separatore centrifugo di quelli comunemente usati in frantoio per separare l’olio dalle acque di vegetazione, separa il brodo di coltura dalla massa dei lieviti, che si trovano pronti all’uso, senza necessità di riattivarli o reidratarli, con la consistenza simile a una pasta spalmabile.
Delle prove di vinificazione ha parlato il dottor Giacomo Buscioni di Food Micro Team, lo spin off dell’Università di Firenze che si occupa di mettere a disposizione delle aziende la ricerca per studiare e selezionare i lieviti e microorganismi utili per le produzioni alimentari.
I lieviti autoctoni riprodotti in cantina sono stati messi a confronto con il lieviti selezionati commerciali normalmente usati nella cantina sociale. In particolare sono state fatte due prove: una con masse di mosto di 25 ettolitri e una con masse di 100 ettolitri. In entrambi i casi i lieviti autoctoni hanno mostrato delle caratteristiche tecnologiche analoghe a quelle dei lieviti commerciali e non ci sono state differenze significative nei parametri chimici del vino, come grado alcolico, acidità volatile, pH.
Le differenze invece sono risultate a livello degli aromi. Una prima differenza è emersa tra le masse di fermentazione. Le masse piccole da 25 ettolitri, sie fermentate con lieviti autoctoni che con lieviti selezionati mostravano, all’analisi chimica, una quantità e una ricchezza di sostanze responsabili degli aromi, superiore a quelle da 100 ettolitri.
Quindi sembrerebbe che lieviti autoctoni e selezionati, dal punto di vista anche aromatico, si equivalgano e che le differenze derivino dalla massa di fermentazione, ma non è così.
Andando a valutare le prove di fermentazione con masse da 25 ettolitri, all’analisi chimica il contenuto di sostanze responsabili degli aromi risultavano simili tra i vini prodotti con i lieviti autoctoni e quelli prodotti con lieviti commerciali, ma all’analisi organolettica, il panel di assaggio ha individuato come più gradevoli i vini ottenuti con lieviti autoctoni.
Un aspetto emerso in parte anche nella degustazione alla cieca fatta alla fine del convegno a villa Montepaldi, dove la maggioranza dei presenti, pressoché tutti addetti del settore, hanno indicato come vino più gradevole tra cinque bicchieri proposti, quello prodotto con lieviti autoctoni sulla massa di 100 ettolitri.
Il pubblico del convegno quindi è stato in grado di distinguere un vino ottenuto con ceppi autoctoni da quelli ottenuti con lieviti commerciali, al di là del volume di fermentazione.
I lieviti autoctoni, se ben scelti, possono quindi essere un interessante aspetto per conferire ancora più tipicità e identità a un vino. E con questo progetto anche la tecnologia inizia ad essere disponibile per le aziende.