Le quotazioni delle principali commodities, in particolare dei cereali, vanno salendo e il trend al rialzo sembra duraturo. Il decollo delle economie dei due paesi più popolosi del pianeta ha accresciuto la domanda di alimenti.
Investitori istituzionali, governi, imprese acquistano terreni in Africa ed anche in altri continenti nell'eventualità che si verifichi una rilevante carenza di offerta.
Alcuni giornali hanno interpretato questo fatto come un nuovo colonialismo ma è probabile che il timore di forti asimmetrie fra i consumi e le disponibilità dei cereali renda conveniente lo sfruttamento di aree ancora non coltivate o scarsamente utilizzate per fare fronte alle future richieste del mercato. Le agricolture europee quindi, anche senza la protezione della Pac, hanno nuovamente oggettive opportunità di produrre e vendere i cereali ed altre commodities, eccedenti le esigenze interne.
Per rispondere correttamente a questo perentorio segnale del mercato occorre prima individuare:
1) i prodotti più deficitari le cui quotazioni hanno maggiori probabilità di crescere,
2) le colture più adatte all'ambiente pedo-climatico e che danno le rese unitarie più alte,
3) la coltura che garantisce il rendimento più alto dei fattori impiegati, capitali e lavoro, per rendere massimi i redditi.
Si confronta il costo di produzione ottenibile con quello dei nostri diretti concorrenti. Nel caso risulti più alto è necessario, per abbassarlo, individuare tecniche e processi di coltivazione più innovativi.
L'agricoltore italiano assai difficilmente potrà però sfruttare questa vantaggiosa prospettiva. L'ampiezza della sua impresa è spesso troppo modesta e non può garantire un reddito che ripaghi il duro lavoro dei campi. Un esempio può meglio chiarire questa drammatica e non invidiabile situazione.
Il fabbisogno di lavoro di un ettaro a grano oscilla fra le 10 e le 20 ore uomo e di ore macchina: solo un azienda superiore ai 100 ettari, impegnando un addetto a pieno tempo, gli offre un margine netto che supera i 20.000 €, valore accettabile per un imprenditore che rischia e che lavora tutto l'anno.
In Italia, secondo il censimento del 2000 vi erano 7.300 aziende sopra i 100 ettari, con 1.300.000 Ha di SAU, solo lo 0,2% delle aziende presenti, il 10% circa della superficie agraria coltivata.
Gli agricoltori europei, consci che per sopravvivere dovevano disporre di aziende di ampiezza adeguata hanno dagli anni sessanta gradatamente ampliato le superfici aziendali, ricorrendo anche all'affitto, ed oggi possono anche usufruire dei benefici delle economie di scala.
I costi, come è noto, sono costituiti dalle spese variabili, concimi, energia, sementi, altri, e da quelle fisse, le quote, gli ammortamenti dei fabbricati, delle infrastrutture, e delle macchine, che ovviamente, con il crescere della ampiezza, diminuiscono.
In Italia la legislazione che regola l'affitto dei terreni è da decenni favorevole ai proprietari e non agli imprenditori.
Abbiamo con la Grecia la aziende più piccole e più frammentate del continente. E' quindi auspicabile, oltre che necessario, che gli agricoltori, rendendosi conto di questa condizione di palese inferiorità, anziché chiedere fondi, sollecitino i responsabili della politica agricola nazionale a modificare rapidamente la legislazione che li danneggia nei confronti dei colleghi europei.
In queste condizioni non possono remunerare convenientemente i fattori impiegati e avere redditi simili a quelli di altri settori.
Le superfici meno produttive non sono più coltivate. L'invecchiamento della popolazione agricola ha come effetto l'accelerazione dell'abbandono di terreni agrari.
Il mercato fondiario ha raggiunto livelli così elevati che sconsiglia gli acquisti per lo sfruttamento agricolo e zootecnico e rende assai difficili gli scambi. Solo l'affitto può rimettere in circolo risorse che rischiano di rimanere inutilizzate. Una buona legge potrebbe consentire agli agricoltori più intraprendenti di aumentare la Sau ed accrescere la produzione di materie prime alimentari sfruttando questa nuova opportunità.
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