Il nuovo manifesto (“Una vita migliore nelle aree rurali” è il titolo) ricalca per moltissimi aspetti la versione targata 1996 della Cork Declaration on rural development, sia pure con le differenze che ha marcato l’ex commissario Franz Fischler, molto più sciolto nel suo intervento rispetto al commissario in carica, Phil Hogan. D’altronde, è innegabile che le responsabilità di Fischler oggi siano minori rispetto al 1996 e che, proprio per questo, possa permettersi di suggerire al suo successore di prendere spunto dalle politiche statunitensi, dove le procedure sembrano molto più snelle (e forse solo “sembrano”, perché l’impressione avuta è quella che anche negli Stati Uniti i vincoli siano piuttosto codificati).
L’Unione europea insiste sul digital divide, punta a implementare la banda larga, la connessione nelle aree rurali. Una mossa che ha una duplice valenza. Da un lato ha appunto l’obiettivo di offrire un supporto all’innovazione, alla formazione e al commercio, dall’altro punta ad attrarre i giovani a ritornare alla terra. Non viene detto esplicitamente, ma le politiche agricole e di sviluppo rurale, che pure con la riforma della Pac 2014-2020 dedicano qualche attenzione in più ai giovani rispetto alla precedente, pare non stiano dando i risultati sperati. Lavorare in agricoltura è faticoso e, nonostante vi siano fonti che evidenziano un incremento dei giovani e degli studenti in discipline agrarie, nelle campagne l’età media dei farmer è intorno ai 60 anni. Sessantatré la media in Italia, uno dei paesi con il maggior numero di capi-azienda “anziani”, insieme alla Bulgaria.
Chissà se la banda larga è la soluzione giusta. Certo quanto dice con una battuta Heino von Meyer, responsabile del centro di Berlino dell’Oecd e uno dei player fondamentali di questa nuova Dichiarazione di Cork 2.0, è veritiero: “Già i giovani vedono poco i nonni, se poi vivono nelle campagne e non c’è nemmeno la connessione a internet per utilizzare serenamente gli smartphone, allora se ne stanno lontano”. Se ci è consentita una divagazione, questa affermazione contiene una doppia verità, e cioè che viviamo in una società dove gli anziani ricevono sempre meno attenzioni ed è sempre più marcata una dipendenza da internet e da iper-connessione che è simile ormai a una droga.
Altro tema che trova l’Ue piuttosto allarmata è quello del cambiamento climatico. D’altronde, sono ormai troppo frequenti episodi di siccità, inondazioni, tempeste, piovosità esagerata, con annesse emergenze di vera e propria food security. Nel 2050 saremo 9,5 miliardi di persone, le aree coltivabili a disposizione sono sempre di meno e di organismi geneticamente modificati – nel corso del vertice di Cork gli ogm sono stati accennati solamente da Fischler, ma per ricordare che 20 anni fa non erano nemmeno una sigla – nemmeno l’ombra: se non affrontiamo il tema del climate change, anche per ottemperare all’accordo raggiunto all’ultima conferenza sul clima di Parigi, il rischio è che i pochi passi avanti compiuti in chiave di denutrizione siano vanificati.
È positivo l’accento posto a tematiche quali le bioenergie e la circular economy, opportunità economica, occupazionale, ambientale, ma allo stesso tempo strumenti per favorire la diffusione di processi sostenibili e grazie ai quali creare reti virtuose e in grado di valorizzazione intere aree, come Gunter Pauli, scrittore e soprattutto imprenditore visionario, ha dimostrato in una lectio brevis all’Università di Cork, che vide in passato impegnato come studente lo stesso commissario Hogan.
Se con la Dichiarazione di Cork 2.0 vi è una presa di coscienza della centralità dell’agricoltura, si può affermare che si tratta di un ritorno alle origini dell’Europa, oggi allargata a Est rispetto a 20 anni fa. L’Ue del post-Brexit ha compreso che doveva dare un segnale di svolta e il settore primario, che è stato uno dei pilastri del dialogo fra le nazioni, è sicuramente una strada efficace. Soprattutto se si lancia il messaggio che un tema così fondamentale come lo sviluppo rurale (che va oltre la mera politica agricola) non può non meritare sforzi congiunti e multi-settoriali.
In gioco c’è il futuro non solo di 22 milioni di agricoltori dell’Ue, che gestiscono circa l’85% del territorio, e nemmeno dei 44 milioni di occupati nella filiera agroalimentare. Si parla, più concretamente, di circa 200 milioni di persone che abitano le zone rurali in Europa. Ed è a loro che si rivolge prioritariamente il manifesto che ha visto la luce in questi giorni.
Certo, come molti hanno confessato più o meno apertamente, bisogna anche prendere atto che grandi temi come la prosperità rurale, l’innovazione, il ricambio generazionale, l’attenzione alle risorse e all’ambiente, il rafforzamento del valore delle catene alimentari non sono certo emersi nei due giorni in cui oltre 300 stakeholder si sono dati appuntamento in Irlanda.
Quanto all’altra grande questione, che è la semplificazione, era uno dei punti nodali della prima dichiarazione del 1996. Sono passati 20 anni e l’obiettivo si è allontanato. La speranza è che non si attendano altri due decenni per fare il punto degli obiettivi raggiunti e che l’agricoltura davvero possa ritornare a essere la regina dell’Unione europea, in ogni angolo d’Europa, per poter competere sui mercati mondiali e dare un futuro alle aree rurali. E magari, come ha sagacemente rilevato il professor Dario Casati, che si parli di agricoltura anche nell’ottica di produzione, competitività e di politica estera in chiave agricola.