Rossi, bianchi, rosé, fermi o con le bollicine, amabili o secchi, strutturati o di pronta beva. E ancora, convenzionali, biologici, biodinamici e “naturali”. Uno spettro di scelte alquanto variegato e per tutte le tasche, avendo esposto sui banchi bottiglie dai sei ai 25 euro. Almeno, stando a ciò che chi scrive ha potuto vedere e acquistare.
È stata cioè una festa del vino, dei suoi amanti e dei suoi estimatori. Una festa cui hanno partecipato 240 vignaioli provenienti da tutta Italia, presentando oltre mille vini a copertura di quasi tutto lo scibile vinicolo nazionale. Ben 34 produttori dalla Val d’Adige, altrettanti dalla Toscana, uno in più dal Piemonte, ma è il Veneto con 47 espositori ad aver giocato la parte del Leone. Quattro “Regioni”, non me ne vogliano le due Province autonome per la semplificazione, che da sole rappresentano quasi i due terzi delle aziende presenti a Piacenza.  
Sagace la scelta di non dividere gli spazi per Regioni, come avviene in altre fiere analoghe, sorteggiando invece i posti in modo casuale. Ciò ha da un lato complicato un po’ la visita al salone, ma di poco, visto che la superficie espositiva era per così dire “intima”, ma ha consentito di valorizzare il lavoro di ciascuno, ponendo spalla a spalla aziende di Regioni fra loro diametralmente opposte per tipologie e tradizioni vitivinicole. Un “melting pot” di produttori che ha creato un’atmosfera particolarmente amichevole, con quel che di “alla mano” che non stona affatto quando i visitatori si aggirino sospingendo un carrello per la spesa e un bicchiere per gli assaggi in tasca.
 
Fra le molteplici sperimentate, due sono le sensazioni che più di altre hanno colpito la mia personale sensibilità. La prima è negativa ed è legata a un pieghevole circolante in fiera che presentava un confronto visivo fra quattro bottiglie: convenzionale, biologico, biodinamico e “naturale. A mo’ d’etichetta su ciascuna bottiglia, questo pieghevole riportava i possibili contenuti di sostanze “chimiche”. Ovviamente, il convenzionale ne conterrebbe di più, il Bio un po’ meno, calo vistoso per il biodinamico e infine, e non poteva essere diversamente, il vino “naturale”, quasi fosse l’emblema del vero vino da bere.
Personalmente non apprezzo il marketing basato sul sostegno ai propri prodotti grazie alla demonizzazione degli “altri”. Un approccio che trova conforto anche su qualificati magazine on-line specializzati, alla cui attenta lettura rimando.
Da un punto di vista strettamente personale, ritengo però che, primo, sia ancora tutto da dimostrare che quelle sostanze “chimiche” siano dannose per la salute, quindi trovo che la loro assenza non sia un plus di cui vantarsi. Secondo, la qualità del vino si sente in bocca e non si legge sui depliant. Terzo, eviterei di presentare un prodotto come migliore degli altri quando esso contenga esattamente la stessa quantità di alcool degli altri. Ovvero una sostanza, questa, che è stata classificata dall’Oms come potenziale cancerogena. Perciò, dato che l’alcool è l’unica sostanza il cui pericolo per la salute è stato veramente accertato, e dato che questa sostanza è presente in modo uniforme nei quattro tipi di prodotto, direi che sarebbe bene per tutto il Mondo del vino se il marketing venisse lasciato a chi sa valorizzare ciò che fa, anziché a chi pensa di farsi bello dicendo cosa non fa e presentando i “concorrenti” come “brutti & cattivi”.
 
Per fortuna, c’è anche la seconda di nota. E questa è positiva. A fare il paio, controbilanciandolo, col volantino di cui sopra, si erge un vignaiolo veneto. Produttore appassionato di Prosecco, imbottiglia vino e amore in egual misura. Crede nel lavoro e nell’esperienza in vigna e in cantina come strumento per migliorare la qualità dei vini e per ridurre gli impatti ambientali. È uno strano tipo, Luca Ferraro, di Bele Casel, Casa di Caerano San Marco, in Provincia di Treviso. È biologico dentro, Luca. Ma forse proprio per questo non ci tiene a esserlo fuori. Quando lo incontro allo stand sta discutendo con un paio di persone sull’opportunità o meno di riportare la scritta “biologico” sulle sue bottiglie. Agli occhi di Luca ciò sembrerebbe quasi voler convincere i clienti con un’idea, un logo, anziché con la qualità del suo vino. Teme che un simbolo apposto in etichetta ne possa sminuire il contenuto, dirottando l’attenzione su una certificazione di qualità anziché farla concentrare sulla qualità stessa. Quella reale, intrinseca del prodotto. Una qualità che all’assaggio direi che conferma tutti i dubbi di Luca: di loghi o di certificazioni, lui, non ne ha affatto bisogno. Di sicuro, lui si che li potrebbe apporre in etichetta senza alcun tentennamento di tipo morale. Che dubiti se farlo o no gli rende quindi ancor più merito.
Bravo Luca. In mezzo a tanti cialtroni che nascondono la propria mediocrità dietro enti di certificazione, che talvolta millantano valori che non ci sono o che fanno addirittura del sottile terrorismo, lui invece ha qualità da vendere. E non vuole vendere altro che quella.