C'erano una volta le viti maritate, nel senso che le piante di vite erano coltivate in abbinamento ad altri alberi, da frutto o meno, come olivi, pioppi, olmi, gelsi e altre specie arboree. Di questa definizione, peraltro, si trovano tracce risalenti sino all'epoca romana. Molti erano i vantaggi di queste pratiche, poiché nel mezzo dei filari misti, viti e alberi, si potevano coltivare anche altre piante, come per esempio cereali o colture foraggere. Su un solo terreno coesistevano quindi piante arboree, viti e colture basse dagli indirizzi più disparati.
Con il passare del tempo la viticoltura è però divenuta sempre più specializzata, vedendo aumentare le superfici vitate a indirizzo esclusivo, andandosi a perdere quasi del tutto la versione "maritata". Il calo di forza lavoro, occorso soprattutto a partire dagli anni '50 del secolo scorso, ha di fatto obbligato a scelte talvolta drastiche, selezionando le colture che potevano dare più reddito in ogni specifico territorio. Da qui gli attuali orientamenti colturali, con aree specializzatesi su poche colture anche grazie allo sviluppo di una meccanizzazione sempre più specialistica anch'essa.
Tanti ettari, ma poche piante
A tracciare il percorso evolutivo (o involutivo a seconda dei punti di vista) della vite si sono presi carico Giovanni Federico e Pablo Martinelli. Il primo opera presso la Division of Social Sciences della New York University di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. Il secondo fa invece capo al Department of Social Sciences, dell'Università Carlos III di Madrid, in Spagna.
A loro firma è infatti il capitolo "Risk management in traditional agriculture: intercropping in Italian wine production" che occupa le pagine 193-224 della più vasta pubblicazione "European Review of Economic History", edita da Oxford University Press a nome della European Historical Economics Society.
Nella parte trattata dai due autori è stata fornita un'interpretazione economica dell'intercoltura quale strategia di gestione del rischio basata sulla diversificazione spaziale della produzione. In tal senso, la vite maritata trovava perfetta collocazione, proprio per l'opportunità che dava di ottenere uva da terreni che potevano contestualmente produrre altri raccolti.
Un aspetto, questo, tipico delle civiltà rurali dei secoli scorsi, basate quasi del tutto sull'autoconsumo e, di conseguenza, legate alla necessità di produrre in loco la più ampia tipologia possibile di alimenti.
A conferma, Federico e Martinelli hanno approfondito soprattutto gli aspetti dell'intercoltura legata alla vite, ossia la dispersione delle piante nei vari appezzamenti delle fattorie anziché concentrarle in vigneti specializzati come oggi invece avviene di prassi.
Differenziare per assicurarsi
Nei secoli scorsi non vi era la possibilità di assicurare i raccolti, come avviene oggi per la grandine e perfino contro i danni dovuti ad alcune avversità, tipo la diabrotica del mais. In assenza di mercati finanziari sviluppati - ricordano gli autori - la diversificazione spaziale e colturale offriva un ottimo livello di assicurazione per i contadini del passato, i quali operavano nell'ambito di economie agrarie tradizionali basate spesso su contratti di locazione. D'altro canto, però, tale diversificazione aumentava anche i costi di produzione, in particolar modo i costi di trasporto.
La maggiore o minore convenienza a seguire queste pratiche miste dipendeva quindi fortemente dai modelli di insediamento rurale, ove alcuni meglio si prestavano di altri in tal senso. Gli autori hanno quindi testato questi modelli in base ai dati disponibili per l'Italia degli anni '30, quando l'intercoltura prevaleva ancora in molte aree del Paese.
Case sparse: il modello più favorevole
Analizzando i dati, Federico e Martinelli hanno dimostrato come l'adozione dell'intercoltura fosse positivamente correlata al modello di abitazioni sparse che risaliva al tardo Medioevo. Questo riduceva infatti i costi di trasporto dalle fattorie verso i singoli appezzamenti e viceversa.
Meno inclini a tali pratiche "miste" erano invece le aree ove insistevano villaggi più estesi e strutturati, con maggiori distanze fra abitanti e campi coltivati. Come detto, però, l'esodo di massa dalle campagne durante il miracolo economico degli anni '50 e '60 rese l'intercoltura non più praticabile dal punto di vista gestionale ed economico.
Il lasso temporale analizzato
Come detto, l'ipotesi sopra esposta è stata verificata dagli autori tramite i dati, alquanto dettagliati, sulla consociazione della vite nell'agricoltura italiana degli anni '30. I campi specializzati e quelli consociati, ossia la coltura specializzata verso quella promiscua, sono stati infatti distinti nelle statistiche sin dall'inizio del diciannovesimo secolo, sebbene solo dagli anni '20 l'Istituto centrale di statistica abbia definito in modo coerente la soglia tra le due forme di coltivazione, iniziando a stimarne le produzioni.
Stando alle statistiche rinvenute, la consociazione rappresentava all'epoca circa tre quarti di tutta la superficie a vigna coltivata in Italia, producendo la metà del vino. Un contributo vinicolo di tutto rispetto, quindi, pensando che quei terreni erano parallelamente utilizzati per la produzione di olive, circa un terzo, come pure da quegli appezzamenti misti derivava la maggior parte della produzione di frutta.
Da essi si ricavava inoltre l'intera produzione di foglie di gelso, necessarie queste per l'alimentazione dei bachi da seta a sostegno della filiera italiana del prezioso tessuto.
La parabola discendente
Il declino di questa pratica si completò poi nei primi anni '90, quando scomparve praticamente del tutto. Un vero e proprio tracollo, considerando che solo 40 anni prima circa, nel 1952, la viticoltura maritata rappresentava ancora il 73% delle superfici italiane, dalle quali si estraeva il 38% delle produzioni di uva.
Crollo di ettari, ma non di produzioni
Dagli anni '50 si assistette quindi a un crollo quasi verticale degli ettari sui quali insisteva la vite, maritata o specializzata che fosse. Stando infatti all'Annual Database of Global Wine Markets (Fonte: K. Anderson e V. Pinilla – 2023), le superfici assolute italiane viticole calarono dai circa quattro milioni di ettari del 1955 ai soli 750mila ettari circa del 2020. Un calo che si è mostrato particolarmente vistoso fino al 1985, quando si segnò poco più di un milione di ettari, rallentando poi nella discesa durante i 35 anni successivi. Il calo era però iniziato agli inizi del secolo scorso, dopo che nel 1910 le superfici vitate avevano sfiorato i quattro milioni e mezzo di ettari.
Va da sé che la gran parte di quelle superfici andate perdute erano proprio a "viti maritate", o comunque seguivano forme di viticoltura marginali, come i singoli filari al limitare degli appezzamenti coltivati con altre specie. A ciò si aggiunse l'abbandono vero e proprio di ettari coltivati a vite come coltura principale, fenomeno nato soprattutto dall'evoluzione degli orientamenti vocazionali delle diverse aree italiane.
Per tali ragioni, per esempio, la vite venne abbandonata pressoché del tutto in molte zone della Lombardia, rimanendo diffusa dal punto di vista professionale solo in alcune ben specifiche e concentrate zone, come quelle dell'Oltrepo pavese, prima provincia quanto a produzioni, del Mantovano, della Valtellina e delle aree a cavallo fra le province di Brescia e Bergamo, con la prima specializzatasi soprattutto nel mondo delle bollicine di pregio.
Lontani quindi i ricordi dei filari di vite ad Affori, comune ormai assorbito nella cerchia urbana di Milano, come pure scomparse sono le viti che comunque venivano coltivate in una miriade di piccoli paesini di provincia, ove per mancanza di braccia l'agricoltura ha dovuto virare con forza verso forme monocolturali, o comunque a bassa diversificazione, come quelle basate sulla produzione di cereali e altre colture a preminente indirizzo zootecnico quali mais, soia ed erba medica.
Ove rimasta, la vite ha dovuto quindi adattarsi alla "vita da single", di tipo specializzato, poiché lo status maritato, sebbene molto più romantico, non era più sostenibile economicamente.
Si ringrazia Giovanni Federico per aver fornito le informazioni necessarie a produrre il presente articolo.