Produrre un chilo di carne di coniglio costa all'allevatore circa 2 euro. Ma da mesi il mercato del vivo è ben al di sotto di questo livello e gli allevatori producono in perdita. In pratica non remunerano il loro lavoro e a malapena coprono le sole spese di produzione, per gran parte rappresentate dall'alimentazione. Per non parlare dei costi di ammortamento degli impianti o degli interessi passivi. Meglio non conteggiarli, a dispetto di quanto affermano economisti ed esperti di bilanci aziendali, o non resterebbe che un'unica scelta, chiudere l'allevamento. Tutta colpa di un mercato che sembra non rispondere più alle “regole” della domanda e dell'offerta, che in passato vedevano in questi mesi crescere consumi e prezzi. Non è più così e le ultime quotazioni registrate dal Cun si fermano ad appena 1,22 euro al chilo (prezzo medio del 22 maggio). Nello stesso periodo dello scorso anno i prezzi erano del 38 % più alti e svettavano a quota 1,68 euro. Ancora insufficienti a coprire le spese di produzione, ma certo meno penalizzanti di quelli attuali.

Colpa delle importazioni
Che succede? Molte le voci che si rincorrono sul mercato. Alcune di queste addossano le responsabilità alle importazioni. Si dice in particolare che la Francia “svenderebbe” le sue eccedenze produttive all'Italia facendo leva su prezzi assai più convenienti di quelli del mercato interno, che così può continuare ad essere “tonico”. Sulle importazioni punta il dito anche Anlac, l'associazione nazionale liberi allevatori di conigli. Il suo presidente, Saverio De Bonis, reduce da un incontro con gli allevatori friulani, guarda con sospetto le provenienze di prodotto cinese, sia vivo sia congelato, favorite dall'assenza dell'obbligo di indicare in etichetta l'origine. Colpa della Commissione europea che su questo tema conferma la volontà di lasciare spazio alle sole indicazioni volontarie. Sul banco degli imputati non solo le provenienze dalla Cina ma anche dal Venezuela e nel complesso, afferma De Bonis, Belgio, Germania e Francia da sole detengono oltre il 50% delle importazioni complessive di carni cunicole, che poi verrebbero rivendute sui mercati europei senza alcuna indicazione del paese di origine. Il Belgio in particolare figura come il primo importatore mondiale di conigli ed al contempo anche il primo esportatore. Situazioni analoghe si registrano in altri paesi, come Germania e Francia e agli allevatori sorge il dubbio che nelle importazioni italiane sottocosto possano celarsi triangolazioni di prodotto extraeuropeo.

Gli allevatori lasciati soli
Una situazione difficile sulla quale dovrebbero mobilitarsi tutte le organizzazioni agricole, ma al momento si registra solo qualche segnale dalla Coldiretti del Friuli Venezia Giulia il cui presidente, Dario Ermacora, ha sollecitato l'intervento pubblico per evitare la chiusura degli allevamenti. Stride con questa congiuntura avversa la recente interrogazione che Ermete Realacci (deputato PD) ha rivolto al Parlamento per sollecitare il rispetto del benessere animale negli allevamenti cunicoli. Pronta la reazione del presidente dell'Anlac. “Anziché porre l’accento sulla vita indegna che subiscono gli allevatori - si legge in una nota a firma di De Bonis - per l’ egoismo di mercati non regolamentati efficacemente e per gli abusi e le intese che lo caratterizzano, si preoccupa invece di misurare i centimetri quadrati in cui vivono i nostri animali.” Nel settore cunicolo, evidenzia De Bonis, c'e attenzione al benessere degli animali e negli allevamenti in colonia gli animali hanno spazio a sufficienza e possono esprimere tutti i comportamenti naturali. Meglio sarebbe, conclude la nota dell'Anlac, preoccuparsi anche del benessere degli allevatori, costretti a subire le conseguenze di importazioni in dumping.