La “corsa” della Xylella

Ma qual è la capacità della Xylella di spostarsi? Stando ai risultati di alcuni centri di ricerca, fra i quali l’Università di Torino e il Cnr, la “sputacchina”, che del batterio è il vettore, percorre in una stagione circa 400 metri in modo del tutto autonomo.
E’ invece ancora da valutare la capacità di spostarsi a distanze superiori, anche di chilometri, utilizzando altri mezzi, come le auto o altri veicoli.

I risultati della ricerca, pubblicati sulla rivista scientifica Environmental entomology, sono commentati sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 14 dicembre, che ricorda come il nuovo regolamento comunitario del 14 agosto abbia ridotto a soli 50 metri l’area soggetta a taglio obbligatorio intorno alle piante infette.
Se i dati dello studio sono corretti, come appare dalle risultanze sperimentali, limitare a soli 50 metri l’area di protezione potrebbe rivelarsi del tutto insufficiente.
La ricerca ha infatti dimostrato che in un solo giorno la “sputacchina” è in grado di percorrere 26 metri in un oliveto, muovendosi in un raggio di 400 metri.
 

Quei soldi non spesi

Si fa sempre più vicino il rischio per la Puglia di dover restituire a Bruxelles i soldi non spesi per i Psr.
Il 31 dicembre, al momento data ultima per chiudere la partita, si avvicina rapidamente mentre per ora risulta investito solo il 39% delle risorse disponibili.
Colpa, come spiega “Il Mattino” del 15 dicembre, degli errori di programmazione e degli inciampi burocratici, poi sfociati in una serie di ricorsi che hanno ingessato tutte le attività.

A pagarne le maggiori conseguenze i giovani, ai quali era destinato un apposito bando e che ora vede la possibilità che oltre 200 domande ancora da completare possano essere annullate.
In ballo ci sono 86 milioni di euro, si legge nell’articolo, e si spera di ottenere una deroga.
La prospettiva, conclude l’articolo, è che si possa recuperare celermente il tempo perduto grazie alla conclusione di tutti i ricorsi.
E ora si guarda ai fondi messi a disposizione per la transizione dal 2021 e 2022 e per il programma Next Generation EU. Sperando, aggiungo, che non si ripetano gli stessi errori.
 

Il valore del marchio di origine

Una filiera che dà lavoro a 50mila addetti, assorbe il 90% del latte prodotto in Emilia Romagna e ha un valore alla produzione di 1,5 miliardi.
E’ la “fotografia” scattata da Lorenzo Frassoldati sulle pagine de “Il Resto del Carlino” del 16 dicembre per descrivere le valenze del Parmigiano Reggiano, formaggio che nel suo palmares può vantare il poco invidiabile record di essere il prodotto più imitato al mondo.
Ma anche il più conosciuto fra le numerose Dop che esprime l’agroalimentare italiano e dove l’Emilia Romagna vanta il maggior numero di prodotti a marchio di origine.

Un settore, questo delle Dop e Igp, che vale circa 17 miliardi di euro, come ha ricordato il recente Rapporto Ismea-Qualivita 2020.
L’articolo si focalizza in particolare sull’Emilia Romagna, per ricordare come in questa Regione ci sia un’importante produzione di salumi, il cui valore ha raggiunto nel 2019 quota 1,9 miliardi di euro alla produzione, che sale sino a sfiorare i 5 miliardi al consumo.
Interessante il dato relativo agli aceti balsamici di Modena Dop e Igp che ormai si avvicinano in valore al miliardo di euro al consumo, mentre il prodotto Igp figura in percentuale come il più esportato (il 92% della produzione).
Lo sviluppo di queste eccellenze è però frenato, conclude l’articolo, dalle limitate dimensioni delle imprese, che si traduce in scarsa competitività sui mercati internazionali e difficoltà negli investimenti per l’innovazione.
 

Il vino entra in banca

Nel 1986 si producevano in Italia 77 milioni di ettolitri, per un valore oggi di circa 1,3 miliardi di euro.
Ora gli ettolitri prodotti sono quasi 50 milioni, vale a dire il 35 per cento in meno, ma il loro valore è salito a 4,3 miliardi, quasi triplicato.
Lo scrive Gimmo Cuomo sul “Corriere del Mezzogiorno” del 17 dicembre per commentare la recente decisione di utilizzare il “Pegno rotativo”, misura messa in atto per favorire l’accesso al credito da parte delle aziende agricole.
In pratica i prodotti agricoli possono essere proposti agli istituti di credito come garanzia per l’accensione di linee di credito, una opportunità che ora viene colta dal settore enologico.

La pandemia ha rallentato le vendite e in cantina giacciono scorte di vino, anche pregiato, in attesa di “tempi migliori”.
Scorte che ora possono essere utilizzate come garanzia per ottenere liquidità immediata.
Il progetto ha raccolto il parere favorevole di uno dei principali istituti di credito italiani e si si avvale della collaborazione di Federdoc, la confederazione nazionale dei consorzi volontari per la tutela delle denominazioni dei vini italiani, e di Valoritalia, la società leader di controllo sui vini Docg (denominazione d’origine controllata e garantita), Doc (denominazione d’origine controllata) e Igt (indicazione geografica tipica) e organismo di controllo sul vino e sull’agricoltura biologica.
L’accesso al pegno rotativo, conclude l’articolo, avrà una corsia preferenziale per le aziende che producono etichette di pregio, attraverso la certificazione di Valoritalia.
 

Balsamico, non basta la parola

Balsamico, aggettivo importante per l’aceto di Modena che può fregiarsene nelle sue produzioni Igp e nella preziosa (sotto ogni punto di vista) denominazione protetta di “balsamico tradizionale”.
Sull’uso del temine balsamico è intervenuta anche la Corte di giustizia della Ue, che ha così sentenziato: se balsamico è considerato un sostantivo, l’uso esclusivo di questa parola spetta agli aceti di Modena e non ad altri.
Se invece si tratta di un aggettivo chiunque lo può usare, ad esempio per definire proprietà di caramelle o di sciroppi.

Lo spiega con dovizia di particolare Valerio Varesi sulle pagine di “Il venerdì”, il settimanale diffuso insieme a Repubblica il 18 dicembre.
La sentenza della Corte non sembra tuttavia aver risolto la questione, visto che ancora sono in pendenza numerose controversie per un uso improprio di questa parola, come ricorda il direttore del Consorzio dell’aceto Igp, Federico De Simoni.
La sentenza della Corte, prosegue l’articolo, ha però aperto una falla nella tutela della denominazione di origine, avendo ratificato un uso libero, pur nei limiti indicati, della parola “balsamico”.
Il timore è che grandi gruppi europei si inseriscano su questo mercato, banalizzando il termine e abbinandolo a prodotti scadenti.
Sarebbe un vero guaio per un settore, quello dell’aceto balsamico, che vanta una produzione che all’origine vale 370 milioni di euro, che al consumo diventa circa un miliardo, per il 92% destinato all’export.
Libero da questi problemi, conclude l’articolo, è il “tradizionale”, che ogni anno sforna 50mila piccole bottiglie il cui prezzo, per il prodotto ad elevato invecchiamento, tocca i 100 euro per un decimo di litro.
 

Troppi ostacoli all’innovazione

L’agricoltura italiana preme per l’innovazione e fa importanti passi avanti nell’introduzione delle tecnologie digitali, settore che ha visto crescere gli investimenti del 22% negli ultimi tre anni, come certifica una ricerca condotta da Nomisma su questo settore.
Ma le nostre aziende agricole faticano a tenere il passo nel confronto con quelle di altri paesi europei, come Germania e Francia ad esempio, dove si hanno mediamente dimensioni più elevate rispetto a quelle italiane.
Poi bisogna fare i conti con le difficoltà di accesso alla rete, problema che riguarda un’azienda su quattro, con le immaginabili conseguenze sulla fruibilità dell’innovazione.
E a complicare ulteriormente il quadro dell’agricoltura italiana si aggiunge l’imperante burocrazia, che insieme alla scarsità di risorse finanziarie mette in forse la competitività delle nostre eccellenze agroalimentari.

A porre l’accento su questi problemi è Deborah Piovan, imprenditrice agricola, dirigente di Confagricoltura, e portavoce del manifesto "Cibo per la mente", intervistata da Ilaria Donatio per le colonne de “Il Riformista” del 19 dicembre.
Se l’innovazione fosse più favorita, continua l’articolo, tutto il processo di produzione sarebbe più sostenibile, ma le strategie europee delineate dal Farm to Fork e dal Green Deal sembrano andare in direzione opposta.
Ci viene chiesto di ridurre gli input produttivi”, spiega Piovan. “Questo significa rinunciare a una parte degli strumenti utili". L’esito, conclude l’articolo, sarà aumentare la nostra dipendenza dall’estero e inquinare di più.
 

“Conflittualità sopita, ma non risolta”

La pandemia ha cambiato in modo sensibile la spesa alimentare, come evidenzia il recente rapporto “Eu 2020 Agricoltura Outlook”, predisposto dalla Commissione europea e commentato da Andrea Zaghi sulle pagine di “Avvenire” del 20 dicembre.
Due dati per capire l’entità del cambiamento, che ha visto crescere del 18% i consumi a casa, mentre i pasti consumati fuori sono crollati del 21%.
A soffrirne anche il segmento agrituristico con perdite valutate in circa un miliardo di euro.

Cambiamenti anche nella scelta degli alimenti, con una decisa preferenza per quelli capaci di mostrare un minore impatto sull’ambiente, ma non per il cibo biologico, che invece perde posizioni, almeno nell’area mediterranea dell’Unione.
Nuove abitudini alimentari, continua l’articolo, destinate a prolungarsi e sarebbe opportuno che gli operatori del settore ne prendessero coscienza per modificare il proprio approccio al mercato.
Cosa non facile - conclude Zaghi - per un comparto che comunque spesso soffre di una conflittualità solo sopita ma non risolta”.
E quanta verità ci sia in queste parole gli agricoltori ben lo sanno e le conseguenze le pagano di tasca propria.
"Di cosa parlano i giornali quando scrivono di agricoltura?"
Ogni lunedì uno sguardo agli argomenti affrontati da quotidiani e periodici sui temi dell'agroalimentare e dell’agricoltura, letti e commentati nell'Edicola di AgroNotizie.
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