Domanda non speciosa a cui è legato il vero futuro del nostro paese. Non solo per quanto riguarda la così detta "sovranità alimentare" ma anche per l'export, l'ambiente, il paesaggio e "last but not least", la cultura.
Ci si scorda spesso che il primo fattore che si deve guardare quando si parla di futuro è la demografia, una scienza negletta in terra italica. A guardare le proiezioni demografiche del nostro paese c'è da spaventarsi, figuriamoci per il settore agricolo, da sempre e in ogni dove il più vetusto anagraficamente.
Ci ha un poco rincuorato una recente ricerca di Nomisma-Edagricole in cui si è potuto osservare che, sebbene rappresentino meno del 10% delle imprese agricole, le aziende degli agricoltori "under 35" hanno performance economiche che sono più del doppio della media nazionale (100mila euro/azienda contro 45mila euro/azienda); i giovani, inoltre, gestiscono aziende più grandi (20 ettari contro gli 11 di media), più strutturate, organizzate, innovative e diversificate.
Alta è anche la quota "rosa". Il 30% delle aziende "giovani" italiane è gestito da donne (contro il 15% di Francia e Germania).
I giovani agricoltori italiani, insomma, sono bravi e fanno bene.
Però, purtroppo, questo non è sufficiente.
Perché non ci vuole un demografo per capire che le aziende condotte da giovani devono rappresentare almeno il 20-25% del totale per garantire al paese un'agricoltura vitale, capace di esercitare un benefico presidio territoriale e di rifornire quel settore agroalimentare che è uno dei nostri asset vincenti.
Abbiamo quindi bisogno di una strategia per cercare di abbassare le alte barriere di ingresso al settore, dobbiamo aiutare le famiglie di agricoltori a vedere un futuro in azienda per i propri figli, dobbiamo letteralmente ripopolare vaste aree del paese oggi abbandonate.
Il futuro non è nelle banche, ma nelle menti e nelle braccia. Banale, ma non troppo.