“Se da un lato, infatti, è importante saper trasformare – ha sottolineato Guidi - dall’altro è necessario avere produzioni agricole con alti parametri di qualità. È il connubio di queste due forze che fa il made in Italy. Per questo siamo convinti che l’agricoltura italiana debba collaborare con l’industria di trasformazione, non solo adeguando le sue produzioni alla richiesta qualitativa, ma anche lavorando insieme per l’innovazione del prodotto agricolo e delle tecniche per ottenerlo. La via è quella della partecipazione alla modernizzazione di tutta la filiera, costruendo così il vero made in Italy, con regole e parametri qualitativi italiani. E in questo riteniamo necessario l’impegno del governo italiano, per arrivare pronti all’imminente Expò 2015”.
Cia, Confagricoltura e Alleanza delle Cooperative ricordano che l’agroalimentare, con oltre 170 miliardi di fatturato, è il secondo settore del Paese, ed è soprattutto l’export il vero motore: oltre 33 miliardi di euro nel 2013 con un incremento di quasi il 5% sull’anno precedente e da tempo con una dinamica superiore all’export complessivo del Paese. Ben il 72% di materie prime utilizzate dall’industria di trasformazione per il proprio fabbisogno è di origine nazionale, mentre la commercializzazione avviene prevalentemente attraverso le grandi catene di distribuzione. Mediamente in Europa le quote di mercato della GDO variano tra il 53% ed il 61%. In Italia circa il 58,6% dei consumi alimentari passa attraverso la distribuzione organizzata, contro il 28,7% dei negozi tradizionali.
“Siamo convinti - ha continuato Guidi - che sia necessario produrre con finalità specifiche coerenti ai bisogni dell’industria alimentare, seppur in una logica di moltiplicazione del valore. E in questa direzione va anche la nostra scelta di creare un coordinamento che comprenda i protagonisti della produzione primaria e della cooperazione, il soggetto che salda al suo interno produzione, trasformazione e vendita”.
A proposito della proposta di Oscar Farinetti di un marchio made in Italy (la mela tricolore) da apporre sui nostri prodotti per arrivare più agevolmente sulle tavole dei consumatori di tutto il mondo, Agrinsieme ritiene debbano esseri chiarite determinate cose. A partire dai parametri da utilizzare per definire un prodotto made in Italy, agli standard di produzione rispettare. E, soprattutto, quale sarebbe il legame tra il marchio e l’origine del prodotto o delle materie prime utilizzate.
“Si tratta di aspetti di indubbia delicatezza – ha detto il coordinatore di Agrinsieme - soprattutto per noi che in Italia ci siamo confrontati per anni su questo tema ed abbiamo anche varato a suo tempo una normativa sull’etichettatura obbligatoria dell’origine delle materie prime che di fatto è ancora inattuata”.
Guidi ha citato l’esempio della pasta italiana (con marchi ben noti in tutto il mondo), che è prodotta anche con grani del Nordamerica. E’ pensabile che non si possa fregiare del marchio made in Italy per questo motivo? Così come sappiamo che produciamo olio di oliva che per circa la metà è ottenuto da materie prime e semilavorati importati. E di questa produzione, l’export è pari al 35% circa. Anche in questo caso come dovremmo comportarci per definire i criteri di indicazione del Made in Italy? Per non parlare del caffè, che per definizione è un prodotto italianissimo anche se non può gioco forza contenere alcuna materia prima nazionale… almeno fino a quando la scienza agronomica non ci consentirà di coltivare una pianta tropicale in Italia!
“Questi esempi – ha concluso il coordinatore di Agrinsieme – solo per rimarcare quanto sia importante dibattere e affrontare con pragmatismo il tema del marchio Made in Italy, che può costituire una chance per il nostro agroalimentare, e che non deve diventare un ulteriore motivo di confusione e contrapposizione”.
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Fonte: Agrinsieme