Digitale, che passione

Un giro di affari di 450 milioni di euro raggiunto già nel 2018, con un aumento del 22% rispetto all’anno precedente.
Sono i numeri della crescita del digitale in agricoltura secondo le rilevazioni dell’Osservatorio Smart Agrifood della School of management del Politecnico di Milano e del Laboratorio Research & Innovation for Smart Enterprises dell’Università di Brescia.
Di questa evoluzione dell’agricoltura 4.0, come viene definita la crescita digitale del settore primario, si occupa “Affari & Finanza”, pagine che Repubblica ha dato alle stampe lunedì 23 novembre.
In Italia, si legge nell’articolo, sono circa 160 le aziende che operano per fornire strumenti innovativi al mondo agricolo e fra queste imprese si cita la padovana EZ Lab, impegnata sul fronte della tracciabilità utilizzando le tecnologie della blockchain.
Altro esempio è quello della Elaisian di Roma, che ha messo a punto un sistema di precisione da applicare in olivicoltura e che promette di ridurre i costi e aumentare le produzioni.
Si continua con GreenRouter, strumento che misura l’impatto climatico delle filiere logistiche agricole attraverso il controllo della produzione di anidride carbonica.
All’elenco si aggiunge MyFoody, progetto di commercio elettronico per la riduzione dello spreco alimentare, promuovendo la vendita di prodotti prossimi alla scadenza.
Infine Foodiscovery, anche questo dedicato all’ecommerce, calibrato sulla vendita on line di prodotti tipici provenienti da produttori locali di modeste dimensioni.
 

I pericoli del Farm to Fork

Sono valutazioni preoccupanti quelle che “ll Sole 24 Ore” pubblica il 24 novembre nell’articolo a firma di Micaela Cappellini, a proposito delle conseguenze del progetto Farm to Fork.
Seguendo il percorso tracciato da Bruxelles, se non ci saranno aggiustamenti di rotta, si rischia di arrivare al 2030 con una riduzione del 12% della produzione agricola nell’Unione europea.
Per di più i prezzi dei generi alimentari subiranno un aumento del 17%.
E’ il risultato atteso con la riduzione del 50% nell’impiego degli agrofarmaci e con l’aumento del 25% delle produzioni biologiche, tutti obiettivi fissati nella politica agricola della Comunità europea e che si sintetizzano nella sigla Farm to Fork.
A tracciare questo scenario è uno studio dell’Usda, il Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, preoccupato per le conseguenze che ne potrebbero derivare negli scambi commerciali fra Unione europea e Usa.
Per scongiurare queste conseguenze le rappresentanze agricole di sei paesi, fra i quali l’Italia, ha firmato una lettera-manifesto all’indirizzo delle principali istituzioni europee.
Non si nega l’importanza di perseguire obiettivi di sostenibilità per le produzioni agricole, purché non diventi motivo di fallimento per le imprese agricole.
Non mancano indicazioni operative, come ad esempio sul tema degli agrofarmaci. Una loro riduzione è possibile, ma richiede soluzioni con minore impatto sull’ambiente e in questa direzione andrebbe sostenuta la ricerca, che stenta a dare risposte su questo tema.
Si chiede poi che una crescita delle produzioni biologiche sia accompagnata da una promozione dei consumi, altrimenti il risultato sarà quello di vedere abbassare i prezzi di mercato, sino a generare una crisi del settore.
Ora del Farm to Fork si parlerà al Parlamento europeo e l’auspicio degli agricoltori è che si tenga conto di questi punti critici del percorso.
 

Meno pascoli, più bosco (degradato)

Il censimento forestale del 2018 conferma che il 36,4% del nostro Paese è ricoperto da alberi. Per ogni italiano ci sono 200 alberi e dal 2005 al 2015 sono diventati bosco 600mila ettari di terreni.
Non accadeva dai tempi della guerra bizantino-gotica di 1500 anni fa, come ricorda Filippo Facci nell’articolo a sua firma pubblicato su “Libero” del 25 novembre.
Molti i lati positivi di questa crescita del verde, che tuttavia nasconde qualche ombra. Il rimboschimento è avvenuto in modo disordinato e indiscriminato e talvolta ha eliminato tante tipologie paesaggistiche o cosiddette biodiversità.
Inoltre questa crescita ha favorito il proliferare di talune specie animali selvatiche il cui numero elevato è in qualche caso motivo di preoccupazione.

Ma c’è un altro aspetto critico che l’articolo non prende in considerazione. L’espandersi del bosco è in parte una conseguenza dell’abbandono delle attività dell’uomo in aree spesso marginali e difficili.
Qui la presenza di allevamenti offriva opportunità di lavoro. Ma gli allevamenti hanno dovuto arrendersi alle crescenti difficoltà. Così i pascoli, la cui cura era affidata agli stessi allevatori, sono stati sostituiti dal bosco.
Il risultato: più boschi, ma più degradati, facile preda del fuoco. Più prateria senza controllo, incapace di trattenere acqua ed evitare frane e smottamenti.

Questa visione dell’allevamento e dell’agricoltura come strumento di difesa dell’ambiente è condivisa da un gruppo di senatori che hanno presentato al Senato un disegno di legge teso a riconoscere il ruolo dell’agricoltore come custode dell’ambiente.
Ne dà notizia “Il Tempo” del 25 novembre, sottolineando che se la proposta legislativa sarà trasformata in legge, consentirà una maggiore tutela del territorio.
 

I soldi della Puglia

Continua ad essere alta l’attenzione sul possibile disimpegno dei finanziamenti erogati da Bruxelles da investire in agricoltura attraverso i piani di sviluppo rurale (Psr).
Fra le Regioni più in difficoltà nel chiudere l’anno utilizzando tutti i soldi a disposizione c’è la Puglia, per la quale esiste il rischio concreto di dover restituire alle casse comunitarie 257 milioni di euro se le risorse non saranno spese entro il 31 dicembre prossimo.
L’argomento è al centro dell’intervista che Lucia del Vecchio ha raccolto da Donato Pentassuglia, assessore all’Agricoltura pugliese, pubblicata sul “Corriere del Mezzogiorno” in edicola il 26 novembre.
Ricordo che a complicare il quadro della situazione pugliese sono giunte alcune sentenze del Tar in base alle quali si è reso necessario rimodulare graduatorie e spesa.
Un'attenzione particolare verso i giovani emerge dalle risposte dell’assessore Pentassuglia, che ribadisce il suo impegno affinché “ai giovani vada offerta una opportunità concreta di insediarsi e di potenziare un settore che ha bisogno di ricambio generazionale.
Si è anche al lavoro per reclutare il personale necessario per adempiere ai diversi impegni dell’assessorato agricolo pugliese (fra i nodi quello dell’Osservatorio per la Xylella).
In cantiere ci sono poi progetti destinati all’agroalimentare per 1,2 miliardi di euro e che riguarderanno forestazione, canali, servizi al sistema, digitalizzazione.
Il dubbio è che poi questi soldi si riesca a spenderli, visti i precedenti.
Intanto per i fondi Psr Pentassuglia conclude l’intervista affermando: “Gli operatori stiano sereni, li utilizzeremo secondo la normativa.” Frase già sentita in un altro contesto...
 

Nostalgia della Federconsorzi

In questi giorni si torna a parlare diffusamente di un progetto non nuovo, come la rinascita della Federconsorzi, grande macchina al servizio dell’agricoltura, caduta in profondo rosso sino al fallimento, avvenuto negli anni ’90 dello scorso secolo.
Il nuovo progetto dei Consorzi agrari d'Italia, fortemente sostenuto da Coldiretti, ha già visto l’ingresso di Bonifiche Ferraresi, una sorta di “centrale” per l’innovazione, oltre che la più grande azienda agricola italiana.
Le tensioni sui mercati globali delle materie prime (come il grano, il cui prezzo è schizzato verso l’alto), hanno impresso un'accelerazione al progetto, che almeno nelle intenzioni si propone come opportunità per rendere l’agricoltura italiana protagonista sullo scacchiere mondiale degli alimenti.
Progetto difficile oltre che ambizioso, non esente da criticità puntualmente sollevate da alcune rappresentanze agricole.
A dispetto di quanti vedono più ombre che luci in questo disegno di rinascita dei Consorzi Agrari, il “Corriere Veneto” del 27 novembre anticipa che è in dirittura di arrivo l’adesione al progetto del Consorzio veneto. Adesione che giunge dopo quelle già formalizzate dai consorzi Adriatico, Centro Sud, Emilia e Tirreno.
Ha contribuito rilanciare il progetto l’emergenza sanitaria in atto, che ha dato consapevolezza sul valore strategico della filiera del cibo, evidenziandone al contempo tutte le fragilità. Che ora, conclude l’articolo, si vorrebbero superare con un piano nazionale che coinvolga imprese e Consorzi agrari.
 

Ai formaggi piace la montagna

Bilancio positivo per i formaggi che hanno un legame con la montagna.
Lo confermano i dati pubblicati il 28 novembre da “Il Sole 24 Ore”, dove Manuela Soressi descrive alcune iniziative tese a valorizzare i formaggi prodotti in montagna.
Così anche i prodotti caseari che non hanno una stretta connessione con le alte vette decidono di distinguere le linee di produzione della montagna dalle altre.
Accade ad esempio per la Fontina Dop, dove l’Associazione dei proprietari d’alpeggio (Arpav) ha creato il marchio Estrema d’Alpeggio, riservato alle produzioni sopra i duemila metri di quota. Ovviamente con latte proveniente da animali in malga.
Poi ci sono i risultati dei formaggi “montani”, come il Montasio Dop, cresciuto del 7,8% nei primi nove mesi di quest’anno, o il Puzzone di Moena che ha raddoppiato le vendite o l’Asiago Dop di montagna con il suo più 12%.
Del plus rappresentato dalle produzioni casearie di montagna si è accorto da tempo il Parmigiano Reggiano, che su questa origine ha posto una certificazione ad hoc, riservata alle produzioni oltre i 24 mesi di stagionatura.
Con il prossimo anno, si legge nell’articolo, prenderà il via una forma innovativa di commercializzazione per le lunghe stagionature, grazie a un accordo con la Borsa merci telematica italiana.
 
Il mio augurio è che queste produzioni di montagna possano spuntare prezzi più interessanti sul mercato e che il loro plus possa riverberarsi sul prezzo del latte pagato agli allevatori.
Di ciò nell’articolo non si parla, ma è un modo per arginare lo spopolamento della montagna, testimoniato dal crescere dei boschi e delle aree a foresta, a scapito dei pascoli.
 

Il terreno vale meno

Battuta d’arresto nel 2019 per il prezzo dei terreni agricoli, con un’inversione del trend di crescita dei due anni precedenti.
A guidare la classifica delle Regioni con le maggiori riduzioni dei valori, troviamo il Friuli Venezia Giulia (-4,5%) e il Veneto (-2,8%).
Anche in Lombardia, Emilia Romagna, Molise e Sardegna i prezzi sono in discesa, come evidenzia l’indagine del Crea-PB (ex Inea), commentata sulle pagine de “Il Resto del Carlino” del 29 novembre da Lorenzo Frassoldati.
Fra i motivi di questa caduta dei valori dei terreni agricoli, si legge nell’articolo, la scarsa redditività del comparto dei seminativi e la mancanza dell’effetto trainante del comparto viti-vinicolo.
Alcuni settori reggono tuttavia alla caduta delle quotazioni, che restano sostenute laddove si possono realizzare produzioni tipiche, come nel caso dei frutteti di alcune zone irrigue o per i vigneti a produzioni Doc.
Nell’elenco dei terreni il cui valore non è stato eroso, sono ricordati gli oliveti ascolani e le aree investite a orticole.
Precipitano invece i valori dei seminativi non irrigui, che in alcune aree collinari (si citano quelle in provincia di Ancona) scendono sino a 10mila euro per ettaro.

Anche il mercato della terra sembra così confermare la caduta di interesse per le aree marginali, sempre meno “appetibili” per gli investimenti produttivi. E aumenta così il rischio di degrado per questi terreni lasciati in balia di se stessi.
"Di cosa parlano i giornali quando scrivono di agricoltura?"
Ogni lunedì uno sguardo agli argomenti affrontati da quotidiani e periodici sui temi dell'agroalimentare e dell’agricoltura, letti e commentati nell'Edicola di AgroNotizie.
Nel rispetto del Diritto d’Autore, a partire dal 23 novembre 2020 non è più presente il link all’articolo recensito.

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