Il sistema agroalimentare italiano si fonda certamente sulla produzione, ma anche sulla grandissima forza nella trasformazione”. Questo il tormentone che viene diffuso quando si discuta su cosa sia il vero Made in Italy e cosa meriti o meno il marchio Igp o Dop.
La querelle occupa sempre molto spazio nella comunicazione di settore, anche se ciò avviene raramente in modo razionale e, soprattutto, onesto. Agli occhi dei consumatori pare sia chiaro cosa si debba intendere per “prodotto italiano tipico” e si spera che il questionario proposto dal Mipaf  ribadisca questa impressione. E cioè che è "tipico" e "locale" ciò che è stato non solo lavorato e confezionato nel Bel Paese, ma anche prodotto in Italia al 100%.
Nel frattempo si può solo assistere all'ennesimo braccio di ferro tra chi produce materie prime qui, in Italia, e chi invece le trasforma e le confeziona e basta, facendosene bellamente un baffo se ciò che sta imbottigliando parlava davvero italiano o meno.
Il business, del resto, non conosce confini né ha mai brillato quanto a patriottismo.
 
Presso il “Forum Food & Made in Italy” del 6 novembre scorso il “duello” dialettico è stato fra Coldiretti, nella persona del Presidente Roberto Moncalvo, e di Fedealimentare, avente come portavoce il Presidente Filippo Ferrua Magliani.
Quest’ultimo si rifà alle Leggi europee, le quali confermano quanto sostenuto da chi trasforma, ovvero che per essere tipici, locali e italiani basta essere stati trasformati e/o confezionati nell’area che beneficia del marchio. Del resto, anche per il Ministro Martina la componente “confezionamento & trasformazione” contribuisce in modo importante nel fissare l’origine nazionale e “tipica” del prodotto finale. Perché mai quindi dovrebbe il Presidente di Federalimentari sostenere una tesi diversa da quella dello stesso Ministro del Mipaf? Soprattutto pensando che l’industria alimentare (volutamente si sottrare in questa occasione il prefisso “agro”) non trova in Italia tutta la materia prima che serve per lavorare.
L’esempio del grano duro insegna, con l'infinita litania di cargo che attraccano nei porti italiani per portarci grani australiani, statunitensi, messicani e canadesi, atti a soddisfare quel deficit di quasi due milioni di tonnellate che altrimenti non permetterebbe alle industrie della pasta di reggere il business attuale quanto a prodotti finiti.
 
Vero: se l’Italia agricola non produce abbastanza è giusto che le industrie trovino sul mercato globale le materie prime. Ma c’è un ma. Un “ma” sollevato da Roberto Moncalvo di Coldiretti, il quale ha stressato un concetto fondamentale: è lecito, per esempio, definire tipico e locale, ovvero “Made in Italy”, un olio le cui olive sono maturate in Tunisia? Agli occhi di chi scrive, oltre che a quelli di Moncalvo, la risposta è ovviamente no. E il gruppo che sostiene tale opinione appare decisamente folto, non solo fra gli agricoltori nostrani, ma anche fra i consumatori. Bello sarebbe quindi che questi, alla fine, si parlassero e unissero le forze anziché contrapporsi fra loro - come fatto scioccamente finora - sull'uso delle agrotecnologie, sui sussidi dati agli agricoltori e sul rapporto fra agricoltura, ambiente e salute, spesso distorto da comitati cittadini che sollevano più che altro inutili e strumentali polveroni mediatici, senza mai giungere però a finali costruttivi.

Pure bello sarebbe, per rispetto proprio dei produttori agricoli e dei consumatori, che i marchi Igp o Dop venissero concessi solo a quei prodotti che oltre a essere trasformati e confezionati in un preciso luogo fossero anche stati partoriti geneticamente lì, ove il marchio insiste. Quando si addenta una bresaola che muggiva in brasiliano si gusta certamente un prodotto in linea con le attuali Leggi, ma forse non si è altrettanto in linea con il desiderio del consumatore di gustare italianità pura dal primo all’ultimo morso. Stessa cosa dicasi per salse di pomodoro, olio, formaggi, carni e salumi vari.
 
E a questo punto, pur plaudendo al Presidente di Coldiretti per l'accalorata difesa del prodotto agricolo italiano, si deve sollevare un’importante questione: se nel giro di vent’anni l’autosufficienza alimentare italiana è calata dal 93 all’80%, di chi è la colpa?
Non sarà forse anche responsabilità di coloro i quali, inclusa Coldiretti, hanno per decenni supportato in modo diretto o indiretto certi furbeschi concetti di “qualità”, facendo passare la quantità come qualcosa di cui vergognarsi?
Non sarà forse anche a causa delle continue e insensate campagne contro le tecnologie più moderne, genetiche e chimiche, che oggi le produzioni agrarie nazionali sono calate vistosamente fino a far divenire il Bel Paese un imbuto in cui mezzo Mondo infila le proprie materie prime?
Non sarà forse anche a causa dell’idolatria verso le pratiche biologiche e verso bucoliche varietà antiche, ben poco produttive, se oggi manca all’appello una quota importante di prodotto interno?
Basti vedere cosa succede in materia di Prosecco, business trainante del Pil italiano, che viene osteggiato con mille argomentazioni social-ambiental-territoriali. Quasi che in Italia chi produce ricchezza in quantità debba essere massacrato e imbavagliato a tutti i costi.
Più che fare barricate al Brennero per fermare i Tir carichi di suini stranieri, servirebbe forse che le associazioni agricole italiane si unificassero finalmente negli intenti, capendo che solo innalzando i volumi prodotti internamente si potrà poi dire all'industria alimentare e alla Gdo di acquistare in Italia anziché all'estero.
 

Poeti, navigatori e trasformatori


Circa la diatriba agricoltura/industria ognuno si dia le risposte che meglio crede. Stando però a quanto esposto sopra, si rafforza il sospetto che nei salotti della politica agroalimentare si voglia trasformare l’Italia in un Paese di trasformatori anziché di produttori. La cosa diventa ancora più preoccupante all’idea che in questi salotti si pensa contestualmente di raddoppiare le esportazioni di prodotti “italiani”. Questo vuol dire che il piano di battaglia è ormai quello di moltiplicare per due il business dei trasformatori e dei confezionatori, non certo quello degli agricoltori.
 
Nel frattempo, l’inarrestabile contrazione delle produzioni agricole nazionali accentuerà le importazioni, non solo di materie prime atte a produrre Dop e Igp, ma anche di tutti quei prodotti necessari per creare alimenti generici, cioè quelli che riempiono i carrelli del 95% dei consumatori italiani.
E proprio in tal senso, qualcuno ha per caso fatto i conti con i miliardi di euro che usciranno dal Bel Paese per comprare latte, carni, cereali, ortaggi e frutta "accessibile" da far consumare agli Italiani? Perché ad ascoltare i vari guru agroalimentari sembra che l’attenzione si stia concentrando sempre più verso i ricchi e gonfi portafogli degli stranieri, dimenticandoci dei potenziali danni a carico dei sempre più magri portafogli tricolori.
 
 
(Compila anche tu la consultazione pubblica e dai valore ai prodotti agricoli italiani)