Tanto tuonò che piovve: dopo tanti annunci alla fine il presidente degli Usa, Donald Trump, ha firmato il 2 aprile scorso il Decreto che impone dazi doganali orizzontali del 20% su tutte le merci provenienti dai Paesi Ue, incluse quelle agricole ed agroalimentari, dalle farine ai vini, passando per olio, formaggi, salumi, prodotti da forno: in pratica, non si salva niente eccetto gli articoli in legno. I dazi verso i Paesi Ue rientrano nella categoria "maggiorati", l'aliquota scelta per molti altri Paesi è infatti del 10%, e "reciproci", sarebbero cioè la risposta ai dazi e alle barriere non tariffarie Ue da sempre esistenti sulle merci Usa. Il bello è che saranno in vigore già da mercoledì 9 aprile 2025.
Al momento la posizione della Ue è improntata alla prudenza: sono pronti i dazi di reazione, ma non si abbandona la via della trattativa. E come si vedrà più avanti, in questa complessa partita, ci sono due arbitri che potrebbero fischiare il fuori gioco a Trump e ai suoi dazi: la Federal Reserve, la Banca Centrale Usa, e gli stessi consumatori americani. Infine, per capire quali potrebbero essere le conseguenze reali di questo extracosto per l'agroalimentare made in Italy e per agricoltori e allevatori italiani tocca fare un piccolo passo indietro, giusto per capire di cosa si parla.
Dazi, su cosa incidono
Intanto, cosa sono i dazi? E come funzionano? Chiamati nel linguaggio tecnico anche "tariffe" sono delle imposte che possono gravare sul valore complessivo delle importazioni o delle esportazioni di un determinato Paese.
Vengono utilizzati sulle esportazioni proprie quando i governi temono scarsità interna di un prodotto - che non si vuole o non si può importare - e conseguenti aumenti di prezzo interni. Il dazio sulle esportazioni ha in quel caso l'effetto di aumentare l'offerta interna e calmierare i prezzi interni del bene colpito dal dazio all'esportazione, a danno degli stessi produttori e a beneficio dei consumatori. Ne è un esempio il dazio sul grano all'esportazione imposto dalla Russia quando i raccolti sono scarsi.
Al contrario, i dazi sulle importazioni servono per limitare l'ingresso di merci straniere al fine di proteggere i produttori nazionali di analoghi beni.
Leggi anche Macchine agricole, la sfida dei dazi
Dazi, imposte non neutrali
I dazi - a differenza dell'Iva, che colpisce solo il valore aggiunto di ogni singolo passaggio commerciale, ovvero la differenza di prezzo tra l'acquisto e la rivendita - a parità di altre condizioni, si aggiungono al valore originario del prezzo determinandone potenzialmente l'aumento per l'intero valore del dazio stesso.
Ecco ora due esempi che possono essere comparati.
Se un commerciante acquista dal produttore un bene del valore di 100 euro sul quale grava un'Iva del 4%, lo pagherà 104 euro; lo stesso commerciante, nel rivendere lo stesso bene al consumatore a 120 euro più Iva, ne incasserà 124,80, avrà così 24 euro di margine e pagherà allo Stato solo 0,80 euro di Iva, poiché detrae i primi 4 euro dell'Iva incassata dal consumatore dai 4 euro di Iva pagata al produttore. Ecco perché si dice che l'Iva è un'imposta neutra e multifase, poiché tassa solo l'incremento di valore che sussiste in un singolo scambio commerciale, in compenso colpisce tutte le fasi commerciali, alimentando un gettito considerevole.
Diversamente dall'Iva, il dazio o tariffa non ha questa possibilità: pertanto, l'importatore che acquista un bene del valore di 100 euro con un dazio all'importazione del 4%, nel momento in cui rivende il bene ad un buyer della grande distribuzione, deve venderlo calcolando nel suo margine i 4 euro in più che ha pagato allo Stato all'atto dell'importazione. Pertanto se avesse desiderato vendere il bene a 120 euro deve aumentarlo per forza di cose di altri 4 euro, per mantenere un margine di 20 euro. Questo perché il dazio non si scarica. Non solo, questo esempio non mette in contro che il bene importato, prima ancora di essere gravato dal dazio, è soggetto ad Iva all'importazione, essendo entrato nel commercio del Paese di destinazione.
Ecco perché i dazi fanno paura: sono imposte non neutre rispetto ai flussi commerciali perché colpiscono l'intero valore di un bene e comportano un aumento dei prezzi tal quale, ma sono in compenso monofasiche, ovvero si abbattono su unico passaggio commerciale, quello che avviene nel momento in cui una merce oltrepassa la frontiera.
Questo elemento apre la porta ad una possibilità: che i vari attori della filiera commerciale del Paese che applica i dazi possano accordarsi per suddividerne volontariamente l'onere, rinunciando ciascuna ad una parte di margine e cercando di scaricarne il meno possibile sugli utenti finali, ovvero i consumatori, al fine di evitare una reazione negativa di questi. Ma è una manovra volontaristica, che presuppone forti capacità di cooperazione e che ha scarsi riscontri su base storica.
Perché gli Usa hanno deciso i dazi
Ma se i dazi doganali o un loro aumento comportano tutti questi svantaggi, resta da chiedersi perché il Governo Trump abbia deciso di implementarli: non c'è una spiegazione univoca. Quella ufficiale è che la nuova amministrazione a stelle e strisce intende in questo modo favorire le produzioni nazionali di beni uguali o simili a quelli importati, per rilanciare l'economia del Paese riequilibrando la bilancia commerciale e quindi conseguentemente aumentare il volume della tassazione, in modo da ridurre il deficit del bilancio federale e - in prospettiva - fermare l'aumento del debito pubblico Usa.
Si tratta di una manovra protezionistica in tutto simile a quella messa in atto dai governi del Regno d'Italia tra il 1878 ed il 1887, che consentì, con lo sviluppo dell'economia che ne seguì, il pareggio del bilancio dello Stato sabaudo: ma in un'economia povera, scarsamente industrializzata, prevalentemente agricola, dominata dal latifondo al Sud e dalla borghesia agraria del Nord, non certo in un'economia aperta, fortemente industrializzata e ad alta tecnologia. Non solo, in quel tempo il Regno d'Italia sostenne l'economia interna con un ampio programma di opere pubbliche.
Secondo il presidente Trump tali nuovi dazi sarebbero anche la risposta alle numerose barriere tariffarie e non tariffarie imposte dalla Ue agli Usa. Il punto è che alcune barriere non tariffarie esistono, come per esempio il divieto di importare carni dagli Usa, a meno che non sia certificabile che in allevamento non sia stato mai usato l'ormone somatotropo bovino. Inoltre su alcuni beni esistono tariffe all'importazione Ue che però non superano un'aliquota del 3% e che secondo la Ue sono mediamente applicate nell'ordine dell'1%. Il punto è che Trump calcola che l'imposizione media tariffaria e non tariffaria sulle merci Usa sia pari al 39%, per cui parla di una "reazione gentile" ai dazi Ue applicando il 20%.
In realtà, da una analisi della formula utilizzata per stimare un'ipotetica tassazione equivalente delle merci Usa allo sbarco in Ue del 39%, risulta che sarebbe fondata su una petizione di principio. Ovvero da una mera analisi del rapporto tra deficit commerciale Usa verso la Ue e valore delle importazioni dalla Ue, una formula che non trova cittadinanza nel mondo degli economisti. Inoltre, le restrizioni alle importazioni di natura non tariffaria, come il caso dell'ormone della crescita per le carni bovine sopra citato, non sono suscettibili di stima economica e rispondono spesso a legittime necessità di tutela della salute o dell'ambiente da parte dell'Ue.
Intanto, il problema che i nuovi dazi Usa pongono è davvero enorme: colpiscono con un'aliquota del 20% orizzontalmente quasi tutti i beni Ue, tranne automobili e acciai, tassati al 25%, scatenando la reazione negativa di mercati e possibili dazi di rappresaglia da parte dei partner commerciali.
La reazione dell'Unione Europea
La reazione dell'Unione Europea ai dazi Usa è al momento molto misurata. Da un lato è già pronta una lista per ripristinare i dazi sospesi nel 2018, in risposta al primo tentativo di Trump di "punire" l'Europa, poi spentosi definitivamente nel 2023, più una seconda lista di prodotti. Dall'altro canto, come fatto trapelare nei giorni scorsi dalla stessa presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, c'è ancora spazio per la trattativa: l'Unione potrebbe tagliare i suoi dazi - peraltro minimi - per convincere l'amministrazione Usa a rinunciare ai suoi. In questa trattativa - vista la sproporzione tra dazi Usa e dazi Ue - entrerebbero in gioco anche altri fattori più squisitamente politici e strategici.
Le pretese di Trump e gli scenari possibili
Anche se - al quanto sembra - per rinunciare ai dazi Trump potrebbe chiedere molto di più sul piano economico e finanziario: un accordo globale sui cambi per mantenere il dollaro su valori più bassi di quelli attuali rispetto ad altre monete, consentendo così agli Usa una ripresa delle esportazioni e la possibilità di continuare a piazzare i titoli del debito pubblico sui mercati internazionali, senza per questo accusare rialzi del dollaro Usa contro altre monete.
Una richiesta che implicherebbe costi decisionali elevatissimi e allo stato ben lontana dal verificarsi e che - laddove raggiunta - impegnerebbe le banche centrali di mezzo mondo a vendere titoli denominati in dollari Usa al solo scopo di far aumentare il valore di euro, yen, yuan contro dollaro per favorire le merci a stelle e strisce. Uno scenario al momento poco realistico, anche perché presupporrebbe forme di regolamentazione della finanza internazionale come contropartita, che sicuramente Trump non sarebbe disposto a concedere.
Al momento, l'unica ipotesi valida per una rapida soluzione della crisi è legata alle dinamiche del mercato Usa: se il tasso d'inflazione dovesse salire nei prossimi mesi a causa di un aumento generalizzato dei prezzi, la Federal Reserve sarebbe costretta ad aumentare i tassi di interesse, vanificando di fatto la manovra di Trump sui dazi, perché avrebbe un impatto recessivo sull'economia americana. In una situazione del genere il presidente Usa e la sua amministrazione sarebbero costretti a gettare la spugna ed è questo forse lo scenario più probabile.
I settori più colpiti
Al di là di questi scenari resta il fatto - qui e ora - che i dazi Usa sono realtà e resta da chiedersi quali sono i settori più colpiti dalle tariffe Usa. In un Paese come l'Italia, con forte vocazione all'export, gli unici settori al riparo dalle nuove tariffe di Trump sono i servizi privati e quelli resi dalla pubblica amministrazione. Per quanto riguarda l'agroalimentare i conti li ha fatti Federalimentare. "Il +20% di tasse, che si sommano a quelle già previste per le nostre esportazioni, unite alla possibilità di averne ulteriori di tipo verticale su alcuni nostri prodotti merceologici come il vino, rischiano di avere effetti devastanti lungo tutta la catena del valore che come Federalimentare stimiamo in un -10% sui fatturati e un -30% nei volumi dell'export" ha dichiarato il presidente della federazione Paolo Mascarino.
Le alternative a questo scenario sono le seguenti: che l'aumento dei prezzi non abbia effetto sulla domanda di beni agroalimentari, comportando solo un moderato aumento dell'inflazione negli Usa oppure che gli attori delle filiere commerciali Usa decidano di ridurre i loro margini per non scoraggiare i consumatori. Ovviamente si tratta di ipotesi molto fragili.
Dazi Usa e conseguenze per gli agricoltori
Le conseguenze sugli agricoltori di tutto questo sono estremamente diversificate e di difficile previsione. Un agricoltore che operi in prevalenza nei settori dell'ortofrutta, data l'oggettiva difficoltà di spedire negli Usa a costi contenuti il prodotto fresco, potrebbe non avere conseguenze dai dazi. Ma chi è in particolari mercati - frutta da industria o pomodoro da industria - rischia di essere preso in pieno: la riduzione dell'export, in tempi brevi non consente un riposizionamento delle merci verso nuovi mercati, pertanto potrebbero calare gli ordini da parte dell'industria, ove esposta verso il mercato Usa. Dopodiché vi sono settori particolarmente esposti, come olio, vino e formaggi, di cui si è fatto già cenno in altro articolo di AgroNotizie® dedicato alla questione dazi.
A medio termine, quindi nell'ordine di circa un anno, è pensabile che le industrie alimentari inizino a trovare nuovi sbocchi di mercato per smaltire quanto invenduto e non scaduto, ma è da tenere presente che la chiusura della Via della Seta verso la Cina e le sanzioni verso la Russia per via della guerra in Ucraina, limitano di molto gli spazi di manovra degli imprenditori. Ovviamente queste sono solo le conseguenze immediate e a medio termine e nell'ipotesi che i dazi vengano meno nel caso si raggiunga un accordo o Trump venga fermato dalla Fed.
Il problema che si pone in caso di mancato accordo o mancata rinuncia ai dazi è molto più vasto e profondo: settori come il vino, che in alcune aree del Paese hanno al tempo stesso un ruolo importante e una forte propensione all'export verso gli Usa, non avrebbero altra scelta che ridimensionarsi, e molti agricoltori dovrebbero puntare a ristrutturare le proprie aziende su produzioni alternative a quella dell'uva da vino. Lo stesso vale per ogni altra filiera legata alla trasformazione: come il lattiero caseario, sempre che non si trovino sbocchi alternativi sul mercato interno dell'Unione Europea. Insomma, molto dipenderà dalla durata di questa crisi e da come sarà gestita nelle settimane a venire.
Leggi anche Dazi Usa, il Consiglio Ue offre accordo ma mette sul tavolo tariffe al 25%
AgroNotizie® è un marchio registrato da Image Line® Srl Unipersonale