La lavanda vera (Lavandula angustifolia P. Miller) si può trovare praticamente in tutta Italia, in particolare sul versante tirrenico, lungo tutta la zona collinare adiacente agli Appennini ad altitudini comprese tra 600 e 1.200 metri sul livello del mare.

 

L'habitat adatto alla lavanda è molto vario proprio per la sua resistenza anche in condizioni climatiche avverse. Si tratta di una pianta rustica che cresce spontaneamente in particolare in collina, dove i terreni sono aridi e sassosi. Infatti, non tollera terreni argillosi soggetti a ristagno.

 

La coltivazione a livello industriale può arrivare a coprire aree piuttosto vaste. La tecnica tradizionale utilizzata per propagare sia la lavanda clonale sia il lavandino o "lavanda intermedia" (un ibrido sterile di Lavandula angustifolia e Lavandula latifolia) è la talea. Le talee possono essere legnose o semilegnose, oppure erbacee. Quest'ultima tecnica è stata utilizzata dal 1965 al 1970 nelle serre, ma ha visto poco sviluppo in campo a causa dei costi più elevati rispetto alle talee legnose. La talea legnosa, per la sua semplicità di esecuzione, è l'unica di interesse per i coltivatori di lavanda. Il periodo ottimale di esecuzione della talea legnosa è fine inverno (febbraio o marzo), prima della ripresa vegetativa. In attesa di essere messe a dimora, le talee possono essere conservate in un luogo fresco, in botti o in celle frigorifere. Le talee devono essere impiantate in un terreno irrigabile, ricco e ben arato.

 

È necessario eliminare i fiori alle piantine sia per pareggiare la crescita sia per evitare che le piantine sprechino troppa energia per la fioritura. Dalla fine dell'autunno all'inizio della primavera le giovani piante ben radicate devono essere prelevate con cura per evitare danni all'apparato radicale. La lavanda e il lavandino tollerano poco i terreni argillosi acidi, umidi e soggetti a ristagno idrico, invece preferiscono terreni asciutti, leggeri, a reazione alcalina e/o calcarei.

 

La lavanda è molto rustica e poco soggetta ad avversità. Sporadicamente si osserva il marciume radicale se il terreno non è ben drenato, attacchi di Thomasiniana lavandulae, un dittero le cui larve, tra marzo e giugno, provocano delle necrosi sui fusti e sui rametti. Tra i parassiti vegetali si ricorda la cuscuta e tra quelli fungini il marciume radicale. Vengono inoltre segnalati dei deperimenti generali delle piante ad opera di un micoplasma, la cui infezione viene trasmessa da piccoli insetti del tipo cicaline.

 

Per una buona resa in olio essenziale e un'ottimale composizione di questo ultimo le piante richiedono un'abbondante illuminazione, quindi sono da preferire i terreni esposti a Sud. La resa in olio essenziale va dai 30-35 litri/ettaro della lavanda vera ai 160-190 litri/ettaro dell'ibrido selezionato R.C..

 

Le differenze di composizione chimica degli oli essenziali di lavanda sono attribuibili sia alla località di produzione sia alla specie. Ad esempio, la concentrazione di linalolo e acetato di linalile è risultata variabile non solo tra diverse specie di lavanda e lavandino, ma anche tra campioni della stessa specie provenienti da località diverse. Tuttavia, le differenze tra le località di produzione sono risultate più significative rispetto alle differenze varietali, suggerendo che i caratteri distintivi osservati nei campioni siano maggiormente influenzati dall'ambiente piuttosto che dal genotipo. In questo senso, nonostante le differenze genetiche tra le specie, l'influenza delle condizioni ambientali (clima, suolo e pratiche agricole) può essere così dominante da sovrapporsi alle caratteristiche varietali nella determinazione della composizione chimica finale.

 

L'Italia è uno dei principali produttori, con coltivazioni distribuite su quasi tutto il territorio nazionale. In Toscana, la superficie di lavandeti è di circa 250 ettari. La produzione di lavanda in Emilia Romagna rappresentava il 40% del totale nazionale nel 2019, con una stima di 250-300 ettari coltivati.

Leggi anche Un'azienda al profumo di lavanda

Il futuro tecnologico della lavanda

L'uso prevalente dell'olio essenziale di lavandino è in profumeria e come repellente dei tarli - perché più ricco di canfora - mentre il più pregiato olio di lavanda vera trova applicazioni in alta gastronomia ed erboristeria, perché non è tossico.

 

Tuttavia, il progresso tecnologico e le spinte geopolitiche potrebbero cambiare radicalmente il mercato degli oli essenziali di lavanda in un futuro non troppo lontano. Il gruppo di ricerca diretto da Paolo Giusto al Max Planck Institute of Colloids and Interfaces di Potsdam-Golm ha scoperto che è possibile ricavare dall'olio essenziale di lavanda un nanomateriale di carbonio microporoso ricco di zolfo tramite vulcanizzazione inversa e condensazione. Il materiale presenta una struttura unica con zolfo ancorato alla matrice di carbonio conduttiva e fisicamente confinato in ultra-micropori. La struttura promuove il trasporto di ioni Na+ attraverso i micropori e il trasporto di elettroni attraverso la matrice di carbonio, immobilizzando efficacemente le specie di zolfo nell'ambiente nanoconfinato, favorendo una reazione redox quasi allo stato solido con il sodio.

 

Ciò si traduce nella più alta capacità riportata per un sistema elettrochimico Na-S a temperatura ambiente, con elevata velocità di carica, efficienza coulombiana e stabilità a lungo termine. Gli accumulatori elettrochimici Na-S rappresentano l'alternativa più sostenibile alle attuali batterie Li-ion. Sodio e zolfo sono elementi abbondanti e di basso costo, mentre le forniture di litio sono un rompicapo per l'Unione Europea, che può contare solo con esigue riserve in Portogallo e deve importare dal Cile la maggior parte di questo materiale, ormai diventato strategico per la transizione energetica.

 

Purtroppo, le batterie Na-S ancora non hanno raggiunto una grande diffusione commerciale, malgrado siano più economiche e possano raggiungere densità energetiche dello stesso ordine, circa 200 wattora/chilogrammo. La loro principale limitazione è che lo zolfo (che costituisce il polo positivo della batteria) e il sodio (polo negativo) si devono trovare allo stato liquido, quindi la batteria può funzionare solo se viene riscaldata.

 

Tipicamente, la temperatura di lavoro delle batterie Na-S è compresa fra 300 e 360°C, in modo da fondere entrambi i materiali e favorire la velocità di carica o massimizzare la corrente di scarica. Oltre alla minore efficienza energetica (70-80% contro i 90-95% delle batterie Li-ion) derivante dall'elevata temperatura di funzionamento, il sodio fuso presenta dei problemi di sicurezza, perché in caso di rotture accidentali può diventare esplosivo a contatto con l'umidità dell'aria. La ricerca si concentra dunque sulla possibilità di realizzare batterie Na-S in grado di lavorare a temperatura ambiente.

 

La soluzione sviluppata al Max Planck Institute consiste nel mischiare un 10% di linalolo (estratto dall'olio essenziale di L. angustifolia, che ne contiene oltre il 30%) con un 90% di zolfo e portare questa miscela a 180°C per creare un polimero. Il polimero viene poi riscaldato in atmosfera inerte di azoto fino a 700°C, formando una struttura reticolare di carbonio contenente gli atomi di zolfo confinati in nanopori. Lo zolfo immobilizzato nell'elettrodo di carbonio consente di far operare la batteria a temperatura ambiente. Il prototipo è stato in grado di mantenere oltre l'87% della sua capacità di carica dopo mille cicli e la densità energetica dovrebbe raggiungere il range dei 200 wattora/chilogrammo, ma le ricerche sono ancora in corso.

 

Allo stato attuale dello sviluppo, si deve migliorare ancora per assicurare almeno 2mila-3mila cicli, in modo da essere comparabile con una batteria Li-ion di buona qualità.

 

Per le spiegazioni e la revisione finale di questo articolo Mario A. Rosato ringrazia Paolo Giusto.