Non poteva che partire dall’emergenza climatica, in questi giorni aggravata anche da una situazione meteorologica preoccupante, l’intervista di AgroNotizie al professor Maracchi.
Presidente, come stanno influendo i cambiamenti climatici sull’agricoltura italiana ed europea?
“Un esempio pratico: non c’è un goccio d’olio in molte regioni italiane ed è così anche in Spagna, a causa di temperature eccessive nella fase di fioritura. Poi pensiamo a inondazioni e smottamenti, che sono un po’ troppo frequenti. L’agricoltura ne risente per gli sfasamenti stagionali con cui deve fare i conti. Fino a Natale si prevede che ci saranno temperature sopra la media e probabilmente anche piogge su livelli superiori alle medie”.
Quale contributo può dare l’agricoltura per contrastare il fenomeno?
“Un contributo insostituibile. Ripeto: l’agricoltura l’unica soluzione per fronteggiare i cambiamenti climatici. Parlo delle colture tradizionali, ma anche delle cosiddette colture no food. Sui terreni non coltivati si può fare la ginestra o la fibra come l’Arundo Donax. Recentemente si assiste anche a un ritorno della canapa. Sono colture del passato, se pensiamo alla diffusione della canapa alcuni decenni fa, e servono nuove tecnologie, ma sono un’alternativa utile anche per recuperare parte del territorio”.
Secondo lei in questi anni è stato trascurato il territorio?
“Indubbiamente sì. Anche perché chi tradizionalmente lo gestiva erano gli agricoltori. Ma ora viviamo in un’epoca dove sono avvenute grandi migrazioni verso la città”.
Sui cambiamenti climatici a livello globale sembra lontano un accordo, in vista del summit di Parigi del dicembre 2015. Quali soluzioni suggerisce?
“Come le dicevo, non è possibile dare una sola risposta a un problema complesso. Ma bisogna partire dall’agricoltura, senza dimenticare il risparmio energetico. Dal 1989 abbiamo raddoppiato l’utilizzo di energie fossili, dobbiamo quindi cambiare l’approccio del nostro stile di vita, anche dalle abitudini di casa. Con 19 gradi, ad esempio, si sopravvie benissimo, non c’è bisogno di avere una temperatura di 22 gradi e stare in maglietta. Questo è un passaggio per contenere i consumi. Poi bisognerà aumentare le energie rinnovabili tipiche dell’agricoltura, dal biocarburante alle biomasse, fino all’eolico. Altro elemento chiave sarà diminuire i trasporti non necessari, aumentando l’uso delle produzioni locali”.
Quali saranno le linee guida dell’Accademia dei Georgofili fino al 2016 sotto il suo mandato?
“Al Consiglio accademico ho presentato una sorta di scaletta, che è stata approvata. Questi sono i punti del programma. Uno: la valorizzazione delle produzioni locali di qualità sui prodotti tipici, Dop e Igp, ma anche di quelli che non hanno uno specifico riconoscimento. Mi sembra la linea vincente sull’agroalimentare italiano, tenuto conto che la nostra filiera vale circa 260 miliardi di euro, con la parte alimentare preponderante su quella agricola.
Il secondo punto del programma è legato al primo e fa riferimento alla tracciabilità: dobbiamo cioè sapere se le materie prime hanno determinate caratteristiche e la loro provenienza. Il terzo punto importante è la considerazione che oggi la parte didattica in senso lato dell’agroalimentare è per lo più divulgativa: ciò non è sufficiente. Credo che serva un livello per così dire divulgativo tecnico di buona qualità, aspetto sul quale l’Accademia dei Georgofili ha tutti gli strumenti necessari.
La quarta linea del mio programma coinvolge i nostri 700 accademici, in rapporto alla burocrazia: dobbiamo lavorare insieme al ministero delle Politiche agricole e ai loro tecnici per la semplificazione normativa. L’obiettivo è quello di identificare quelle cinque, sei, otto linee guida su dove l’agricoltura deve intervenire, anche sul piano legislativo, per favorire una sburocratizzazione e avere una maggiore omogeneità delle norme.
I giovani rappresentano un altro punto cruciale del mio programma. Bisogna agire senza fare iniziative velleitarie. Ai giovani servono le macchine, il capitale d’esercizio, gli strumenti per crescere, tutti elementi ancora più necessari della terra.
L’ultimo punto riguarda il ruolo dell’agricoltura e dell’ambiente. Penso alle energie rinnovabili: in Italia ci sono 5 milioni di fabbricati agricoli, se su ciascuno di essi ci fossero i pannelli solari, se si potesse intervenire sulle biomasse, i biocarburanti, il micro-eolico, forme di energia complementari al territorio e al paesaggio rurale, arriveremmo a dare un contributo del 30% dell’energia che si usa nel Paese”.
Ad oggi, quali sono le priorità per l’agricoltura italiana?
“C’è un tema di sovranità alimentare da tenere presente. Abbiamo tutta una serie di produzioni di massa, come il frumento o altri cereali, su cui mi sembra ragionevole tenere presente che anche il problema dell’autoconsumo nazionale è importante. Dipendere tutto da mercato internazionale mi sembra fuori luogo.
Poi abbiamo una grande tradizione di prodotti tipici, siamo a quota 261, bisogna puntare molto. Poi vi sono altre questioni, come quella relativa alle diverse varietà nel campo delle sementi”.
Cosa intende?
“Non significa essere contro le multinazionali, assolutamente. Ma non possiamo dimenticare che in Europa abbiamo una tradizione sementiera molto lunga, per cui dovremmo cercare di investire di più nel mantenimento di varietà locali, senza ridurle a fatti microscopici locali, che rappresentano forse dell’hobbismo”.
Il marchio unico del made in Italy può essere soluzione valida?
“Ho l’impressione che annacqui tutto, ma è un parere personale, perché sono un climatologo. Certo è evidente che l’immagine del made in Italy, se posso usare un’espressione colorita, si è un po’ sputtanata all’estero. Penso che negli Usa l’Italian sounding sia un’enormità rispetto a quello vero”.
In queste settimane si sta discutendo sul Ttip, l’accordo transatlantico di libero scambio. Che cosa dovrebbe fare l’Unione europea in tema di Dop e Igp?
“Bisogna prendere atto che siamo in un mondo in cui quello che conta veramente è la comunicazione, più che i regolamenti. Diventa per questo rilevante creare una cultura su certi prodotti, su come vengono realizzati. Un discorso che vale per tutto, anche per il tessile: oggi la gente va in giro con i jeans coi buchi alle ginocchia, si è persa la percezione che 50 anni fa si aveva sulla qualità dei tessuti. Lo stesso può dirsi in altri settori. Bisogna fare cultura, anche per non farsi influenzare eccessivamente dal fenomeno della pubblicità. Le faccio un altro esempio: negli anni Sessanta negli Stati Uniti si spendevano una cifra rilevante in pubblicità, ma non spaventosa. Oggi negli Usa si spende una cifra superiore alla spesa del Pil di tutti gli stati africani, Nord Africa e Sudafrica compresi”.
Che cosa significa?
“Vuol dire che oggi la cultura corrente viaggia con la pubblicità, con la conseguenza che abbiamo perso parte della cultura del passato. Pensi al concetto di parsimonia, ormai desueto. Se dunque vogliamo riscoprire il valore del cibo, riportare il concetto di qualità nell’agroalimentare, dobbiamo procedere su due fronti, quello di una pubblicità che racconta il cibo e le divulgazioni per addetti ai lavori”.
Fra i suoi punti programmatici c’è l’attenzione ai giovani. Cosa dice della proposta del Ceja per coinvolgere la Banca europea degli investimenti?
“Ritengo che sia una proposta molto positiva. La condizione è indicare modelli fattibili, altrimenti i giovani non rimangono in agricoltura. Dunque, a un ragazzo che si avvia all’agricoltura bisogna dire così: ti do un terreno e ti presto i soldi, ma servono modelli per una sopravvivenza dignitosa della persona. Se viene a mancare il fattore guadagno, nessuno vorrà più fare l’agricoltore, perché è un settore dove il volontarismo non funziona”.
Lei è stato membro del consiglio scientifico del Piano spaziale italiano. Quando ci sarà l’agricoltura nello spazio?
“Io mi accontenterei che l’agricoltura ci fosse sulla terra. Nonostante il fatto che i cinesi comprino mezzo mondo, di terra da coltivare ce n’è ancora ed è sufficiente, dovremmo però smettere di colonizzarla con il cemento. Uno dei fatti che passano purtroppo inosservati è stato il processo che è avvenuto nei paesi industrializzati in quest’ultimo secolo e cioè la migrazione dalle campagne alle città. Agli inizi del Novecento la popolazione stava in aree rurali, mentre oggi a livello mondiale il 90% risiede nelle città, con megalopoli come Città del Messico o Shangai. Pochi ci pensano, ma questa è la più grande trasformazione storica avvenuta nei millenni”.
Che cosa dovremmo fare nel futuro?
“Dovremmo ricolonizzare le campagne”.
Da alcuni anni si sta studiando l’opportunità della vertical farming, l’agricoltura verticale sui palazzi delle città. Che ne pensa?
“Può essere stimolante, forse anche utile, ma non ci vedo per il momento una possibilità di svolta fondamentale per le città. Non la vedo risolutiva, se devo essere sincero. Piuttosto, auspicherei una maggiore attenzione per riequilibrare l’attività urbana e le attività agricole”.