Guai a parlare di Dop e Igp italiane come prodotti di nicchia. Intanto, però, l’export agroalimentare tedesco bagna il naso a quello italiano. Questo è in sintesi l’intervento di Paolo De Castro, Presidente commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento europeo, intervenuto in videoconferenza al secondo “Forum Food & Made in Italy” tenutosi a Milano il 6 novembre 2014. 
 
Salire dagli attuali 33 ai 50 miliardi di euro di esportazioni. Questo sarebbe per De Castro l’obiettivo da raggiungere. Guai poi a definire di nicchia i prodotti a marchio Dop e Igp, perché questa parola ha assunto nel tempo un significato sempre più negativo e va quindi evitata.
E pensare che una volta vendere un prodotto definendolo di nicchia equivaleva quasi a dire che si produceva qualcosa di altamente pregevole e quindi meritevole di prezzi più elevati della media…
 
De Castro parla poi del cosiddeto "Italian Sounding" e di lotta al falso Made in Italy. Non è cosa da poco, in effetti, soprattutto pensando che nel Mondo si possono trovare prodotti che scimmiottando quelli del Bel Paese fanno decine di miliardi di business. Come non dare quindi ragione all’ex Ministro all’Agricoltura? Basta cercare un po’ su internet e si trova il Reggianito brasiliano, o il Parmesan, che ha pure un bellissimo sito internet su cui è possibile fare acquisti. In Svizzera si produce aceto balsamico, gorgonzola, salame “Milano”. Nelle catene di supermercati russi si vendono scamorze, salami, mozzarella, robiola, ricotta, pizza e chi più ne ha più ne metta.
E ciò faccia magari meditare sull’efficacia dell’embargo stabilito ai “danni” dell’Orso ex-sovietico.
C’è perfino un produttore di Prosecco. A Treviso?
No, in Australia. E nessuno è ancora riuscito a ottenere che la smetta di utilizzare il nome Prosecco sui propri vini frizzanti. Per giunta buoni, a giudicare dai commenti dei degustatori.  
 
Non v’è però da essere tanto certi che stroncando i business “Italian Sounding” si possa moltiplicare di due o tre volte il nostro export. Perché i prodotti in questione sono comunque qualitativamente lontani dall’essere considerati spazzatura, come invece li si ama descrivere in Italia con una certa punta di livore (forse invidia? nda). In più, possono contare su prezzi inferiori rispetto al prodotto originale italiano e danno per giunta la certezza agli acquirenti non solo di comprare prodotti di sufficiente qualità, ma anche di dare lavoro ad aziende locali anziché straniere.
 
Scandaloso? Mica tanto. Del resto - punzecchiatura volutamente polemica - non è forse anche opinione dell’attuale Ministro al Mipaf, Maurizio Martina, e del Presidente di Federalimentare Filippo Ferrua Magliani, che il luogo e le modalità di trasformazione e di confezionamento contano già di per sé moltissimo sulla qualità finale di un prodotto?
Se perfino il nostro stesso Ministro e il Presidente degli industriali alimentari italiani reputano che, in fondo, l’origine italiana della materia prima non sia poi così indispensabile al fine di stabilire la qualità intrinseca del prodotto finito, perché mai dovrebbe preoccuparsi la massaia moscovita di procurarsi una formaggetta italiana quando ne può trovare in loco di assolutamente commestibili (e buone) a prezzi ben più amichevoli? Perché le caldaie in acciaio e il caglio per caseificare mica sono una prerogativa solo italiana. E un bravo tecnologo alimentare può realizzare prodotti di assoluta qualità in qualunque parte del Mondo che abbia condizioni climatiche per lo meno simili a quelle ove viene prodotto il bene originale.
 
E detto fuor di metafora, se non piace il termine “nicchia”, cosa mai si dovrebbe dire di “Italian Sounding”, espressione che quasi quasi esprime italianità e qualità quando la si pronuncia?
Si capisce bene che chiamare il Parmesan o il Reggianito “False Italian Cheese” potrebbe essere decisione un po’ forte e foriera magari di cause internazionali, ma almeno ci si sarebbe espressi in modo chiaro e netto nei confronti dei furbetti che traggono vantaggio dall’ottima immagine di cui (per ora) godono i cibi italiani all’estero.
 
Forse, servirà quindi fare qualcosa di più che lottare contro il tarocco straniero per far salire le nostre esportazioni dai 33 miliardi attuali ai fatidici 50 auspicati da Paolo De Castro.

Intanto la Germania, che non pare molto preoccupata della lotta al “German Sounding”, di export ne mette insieme 56 miliardi, ovvero il 70% in più dell’Italia. Paese, il nostro, ove pare domini da un lato una grande presunzione di superiorità, accompagnata purtroppo dall’altro da pesanti lacune organizzative in materia di logistica e di azioni promozionali comuni.
Eataly, tanto per dirne una, non arriva a 500 milioni di euro di fatturato complessivo ed è considerato il fiore all’occhiello del Made in Italy all’estero.
Intanto la Francia, zitta zitta, è divenuta il primo esportatore in Cina e i suoi vini se li fa pagare il triplo dei prezzi cui devono scendere i vini italiani, perché la percezione di qualità dei vini che i Cinesi hanno, evidentemente, è ampiamente a favore dei più scaltri e organizzati cugini transalpini.
 
Come fare a convincerli? Magari smettendola di fare i doppiogiochisti che ciurlano nel manico sui concetti di qualità, di “Made in Italy”, di Dop e di Igp. Perché non è molto intelligente disprezzare i prodotti simil-italiani fatti in Brasile se poi s’insaccano bresaole fatte a loro volta proprio con carne brasiliana. Né è carino tuonare contro chi imita i nostri salumi quando poi quelli nostrani sono ottenuti da maiali slavi o tedeschi. O, perché no, quando si propongono come italianissimi dei formaggi ottenuti da latte francese oppure oli le cui olive sono maturate al Sole del Nord Africa.
 
Si mediti quindi, e per concludere, su un semplice fatto: aprire uno stabilimento in Colorado o nel Missouri in cui produrre pasta di grano duro eccellente, oppure salsa di pomodoro di ottima qualità, non è impresa impossibile. Tanto, le materie prime resterebbero sempre quelle: grano americano e triplo concentrato cinese. Per quale arcana ragione il resto del Mondo dovrebbe quindi continuare a farsi prendere in giro dai soliti “furbetti del Doppettino”? Quelli che quando parlano di qualità e di Made in Italy minimizzano l’importanza del lavoro degli agricoltori italiani, strizzando perennemente l’occhio alle industrie di semplice trasformazione?

Finché le Leggi europee e italiane che regolano la concessione dei marchi Dop e Igp non prevedranno l’obbligo di utilizzare solo ed esclusivamente materie prime locali, si continuerà infatti a prenderci in giro da soli con questo vergognoso gioco delle parti fra chi il sordo lo fa e chi invece finge di esserlo.