Un’agricoltura più redditizia e più produttiva, capace di ricavare di più inquinando di meno: questa è la Pac del futuro secondo Copa-Cogeca, l’Associazione europea degli agricoltori e delle cooperative agricole.

A due settimane dal lancio della riforma della Politica agricola comune, ne abbiamo discusso con Paolo Bruni, presidente della Cogeca.

 

Con la nuova Pac ci si vuole liberare di chi beneficia degli aiuti senza svolgere una vera attività produttiva. Il nuovo concetto di “agricoltore attivo” prevede che possa ricevere un sostegno chi svolge almeno il 5% della propria attività in ambito agricolo. Siete d’accordo alla definizione, nel criterio e nell’entità?

"Siamo d’accordo con il criterio: è ragionevole introdurre una percentuale per identificare i 'veri' agricoltori. Però questa novità è stata tanto sbandierata, per poi indicare appena il 5%! Bisogna creare una divisione decisamente più netta tra chi lavora la terra e chi no, introducendo una percentuale che sia veramente rappresentativa di un reddito rilevante che proviene dall’attività agricola".

Che impatto avrà la novità di limitare i sostegni al reddito a un massimo di 300mila euro per azienda?

"Per noi il 'capping' si pone in contraddizione con la necessità di avere un’agricoltura europea più strutturata e quindi più competitiva. Per anni sono stati fatti sforzi per promuovere l’aggregazione tra agricoltori, per convincerli a mettersi insieme creando delle strutture, che ora potrebbero tendere a disgregarsi di nuovo per effetto di questa disposizione.
La contraddizione sta nel fatto che la cooperativa, ai fini dell’erogazione di fondi Ue, è vista come un’entità unica: se si ponesse un tetto massimo di contributi, sarebbe però una molteplicità di agricoltori a soffrire le conseguenze dei tagli. Copa-Cogeca è contraria in generale al concetto di limitare gli aiuti. A maggior ragione riteniamo che 100 produttori singoli che si sono uniti in una struttura non possono essere considerati alla stregua di una singola, grande azienda".

La critica più diffusa a proposito del greening (condizionare parte degli aiuti all’utilizzo di pratiche eco-compatibili, ndr) è il timore che comporti un eccessivo carico burocratico. Sposate anche voi questa posizione?

"Sì, siamo d’accordo con il Parlamento europeo quando dice sì al greening, ma non a tutti i costi. Il carico amministrativo che peserebbe sugli agricoltori potrebbe indurli a rinunciare al 30% di aiuti collegati allo svolgimento di pratiche ambientali, pur di non doversi occupare di ulteriore burocrazia. Questo comporterebbe un doppio effetto negativo: da una parte non si coglierebbe l’obiettivo di rendere l’agricoltura più sostenibile dal punto di vista dell’ambiente, dall’altra i produttori vedrebbero ridotto il sostegno al proprio reddito.
Inoltre, spesso il beneficio che il greening dovrebbe apportare è poco chiaro, a fronte di grossi sacrifici, ad esempio quando si richiede a chi produce di lasciare incolto il 7% delle terre".

Eppure, la Commissione ritiene che non manchi molto a raggiungere quest’obiettivo: la stima è che già oggi, considerando i bordi dei terreni coltivati e le aree con alberi e vegetazione, si arrivi all’incirca a quella percentuale.

"Mi sembra una stima errata, soprattutto pensando alle grandi aree produttive che danno il maggiore contributo alla resa a livello europeo. Inoltre, si tratta di una disposizione che contrasta con il dossier della sicurezza alimentare: tra l’aumento demografico, la maggiore ricchezza in vaste aree del globo e l’utilizzo di materie agricole e terre a fini energetici, nel futuro prossimo c’è bisogno di produrre di più, molto di più".

La proposta prevede l’allargamento delle Organizzazioni di produttori a tutti i settori agricoli. Qual è il modello cui fare riferimento?

"La riforma deve essere l’occasione per metter mano alla catena del valore: per ogni euro speso dal consumatore, appena 10-20 centesimi finiscono nelle tasche dell’agricoltore. Bisogna riequilibrare questo meccanismo e le Organizzazioni dei produttori svolgono un ruolo essenziale in questo senso. Il modello a cui guardare è sicuramente quello dell’ortofrutta: bisogna fare in modo che siano delle strutture vere e proprie, che abbiano realmente la disponibilità del prodotto e svolgano materialmente la commercializzazione".

L’adozione di un criterio uniforme per la distribuzione dei pagamenti diretti spaventa i Paesi, come l’Italia, dove l’agricoltore è sostenuto in maniera coerente a quanto percepito nel passato. Come affrontare questo passaggio?

"Su questo punto un’organizzazione come la nostra deve tenere in conto le posizioni completamente divergenti dei Paesi europei. Per questo apprezziamo il concetto di gradualità, che può fungere da cuscinetto tra chi vuole cambiare tutto subito e chi non vorrebbe cambiare. In linea generale, dovendo diventare un’unica vera Europa in ambito agricolo, è ovvio che i comportamenti debbano essere uniformati, ma ci vuole del tempo per evitare sconvolgimenti innaturali".