Un incontro che ha voluto fare il punto sullo stato della ricerca e della legislazione e del mercato sul tema attualissimo del miglioramento genetico in viticoltura mirato a ottenere varietà resistenti alle principali malattie soprattutto fungine della vite.
L'innovazione varietale infatti più che una sfida è una questione che la viticoltura moderna deve prendere in considerazione per andare verso una maggiore sostenibilità ambientale e una realtà che ha sempre accompagnato la viticoltura stessa, dal momento che le tecniche di coltivazione e molti vitigni di duecento anni fa sono diversi da quelli di cento anni fa, ancora diversi da quelli di oggi, come ha ricordato Antonio Calò, presidente dell'Accademia italiana della vite e del vino che ha aperto i lavori.
Attualmente nel mondo ci sono oltre 5mila varietà di vite registrate per la produzione di vino, di cui 545 in Italia, come ha ricordato Riccardo Velasco del Crea viticoltura e enologia, che ha fatto il punto sulle varietà resistenti attuali e sulle prospettive di ricerca.
Di questi vitigni pochissimi sono resistenti ai patogeni, e sono solo quelli di ultima generazione frutto del lavoro di miglioramento genetico portato avanti sia con le tecniche classiche che con i nuovi metodi biotecnologici.
Oggi sono disponibili sul mercato varietà resistenti ottenute con la tecnica classica dell'impollinazione artificiale incrociata, che hanno permesso di inserire nella vite europea i caratteri di resistenza presenti nelle specie di viti asiatiche e americane.
Un momento della tavola rotonda durante l'incontro a Firenze
(Fonte foto: Matteo Giusti - AgroNotizie)
Ma le biotecnologie genetiche permettono oggi di realizzare varietà resistenti in minor tempo e in modo più mirato usando le tecniche transgeniche che si basano sull'inserimento di geni da altre specie (una cosa analoga a quanto fatto con gli incroci tra viti europee e americane, ma fatta in laboratorio anziché in vivaio) o le tecniche cisgenetiche, in cui si inseriscono in una pianta i geni desiderati provenienti da piante della stessa specie.
Tra le biotecnologie disponibili e più promettenti oggi c'è il genoma editing, basato sulla tecnica Crispr-Cas che permette di tagliare il Dna in un punto preciso per poter andare a inserire un gene, o per silenziarne uno, cioè renderlo inattivo o anche solo per rompere la catena del Dna e indurre mutazioni casuali, non apportando alcun tipo di geni esterni.
Un tecnica che permette di lavorare con estrema precisione e di non alterare il resto del genoma della pianta che si vuole modificare come avviene invece con le tecniche dell'incrocio. Si possono in questo modo ottenere varietà mutate anche solo in un singolo gene, ma esattamente uguali per tutto il resto del genoma.
Con questa tecnica si possono in teoria ottenere anche varietà tradizionali modificate solo in un punto per ottenere un carattere desiderato, ad esempio un Sangiovese che ha tutte le caratteristiche del Sangiovese, ma che risulti anche resistente alla peronospora.
Uno scenario interessante ma che, come sottolinea Velasco, non deve illudere di poter ottenere piante immuni o resistenti a qualsiasi malattia. La resistenza ad un particolare patogeno come ad esempio la peronospora, non garantisce la protezione assoluta, in quanto anche la peronospora stessa può evolvere e tanto meno dà protezione rispetto ad altri patogeni come l'oidio o altre malattie che potrebbero arrivare. E per questo l'ottica di una corretta gestione colturale resta fondamentale.
Nonostante queste prospettive, l'uso di nuove varietà resistenti rimane spesso vittima di chiusure, spesso anche ideologiche, che comprendono sia le varietà migliorate con le tecniche classiche sia quelle ottenibili (dal momento che non ci sono ancora sul mercato) con le biotecnologie genetiche, come ha sottolineato Michele Morgante dell'Università di Udine.
Infatti i nuovi vitigni resistenti sono stati registrati come ibridi, anche se da un punto di vista genetico i caratteri delle viti asiatiche e americane non desiderati sono praticamente scomparsi grazie ai reincroci con la vite europea. Una situazione analoga a quanto avvenuto nella nostra specie, Homo sapiens, in cui sono presenti geni di un'alta specie, l'uomo di Neanderthal, dovuti ad antichi incroci tra le due specie, ma non per questo ci possono far considerare ibridi.
Al di là delle sottigliezze genetiche, però, l'iscrizione nel registro varietale di queste varietà come ibridi (cosa che invece non è stata fatta in Germania per esempio) ha una conseguenza pratica: non consente il loro uso per la produzione di vini Doc.
Nel caso poi di vitigni ottenibili con biotecnologie genetiche, la legislazione Ue considera come Ogm tutti gli organismi ottenuti con queste tecnologie, anche nel caso dell'uso di tecnologie cisgeniche o di genoma editing. Tecniche queste due che permetterebbero di ottenere varietà praticamente uguali a quelle attuali ma resistenti o con altri caratteri desiderati che possano ridurre l'impatto ambientale o migliorare le caratteristiche qualitative, senza rischi ipotizzabili per la salute in quanto frutto di genomi normalmente usati per la nostra alimentazione.
Una chiusura che come ha osservato Antonio Rossi dell'Unione italiana vini, da un lato è tipica della legislazione che si pone sempre in maniera prudente rispetto alle novità, ma che dall'altro spesso non riesce a stare al passo con la tecnologia disponibile, rischiando di ingessare il processo di innovazione e che deve essere guidata in modo da poter rendere utilizzabili anche le nuove tecnologie se ritenute valide e sicure.
Ma la chiusura sull'uso delle biotecnologie genetiche è stata ribadita in maniera ferma da João Onofre Antas Goncalves, capo unità della direzione generale Vino alcolici e prodotti orticoli della Commissione europea, che ha dichiarato che in prospettiva non ci sono possibili aperture perché i cittadini europei non sarebbero pronti ad accoglierle, gettando una secchiata di acqua fredda sugli entusiasmi o quantomeno le speranze dei ricercatori presenti.
Per Onofre invece la via che sarà proposta nella nuova Pac andrà nell'ottica dei vitigni resistenti ottenuti con tecniche tradizionali, che per quanto riguarda la Commissione europea possono già essere usati anche per i vini Doc e Docg, e gli eventuali divieti in tal senso, come in Italia, derivano da decisioni degli Stati membri.
Ma quale è la posizione del mondo produttivo italiano? Quello che è venuto fuori dalla tavola rotonda che ha concluso la mattinata è una generale apertura sull'uso dei vitigni resistenti già in commercio e un interesse fiducioso per le prospettive offerte dalle biotecnologie genetiche.
In questo senso sono andati gli interventi di Antonio Apollonio, produttore ed enologo pugliese e presiedente di Assoenologi Puglia Basilicata e Calabria e di Roberto Sandro, produttore di Prosecco e presidente Gie vitivinicolo della Cia. Anche perché oltre all'esigenza di un minor impatto ambientale, le prospettive di mercato mostrano che in futuro per i consumatori la sostenibilità ambientale sarà più importante delle denominazioni di origine dei vini.
Una posizione favorevole che nel caso di Riccardo Ricci Curbastro, produttore in Franciacorta e presidente di Federdoc, ha riportato anche la sua esperienza aziendale, dove ha dei vigneti con varietà resistenti in cui i trattamenti sono praticamente assenti.
Per Ricci Curbastro non ci sono problemi nemmeno per la tutela della biodiversità agraria dei vitigni, in quanto i tradizionali possono perfettamente convivere con le nuove varietà resistenti, e addirittura le tecnologie genetiche potrebbero permetter di rendere resistenti gli stessi vitigni tradizionali.
L'unico problema che si pone è far conoscere ai consumatori questi nuovi vini, ovviamente diversi da quelli ottenuti con vitigni tradizionali.
Alcune perplessità invece sono state mostrate da Giancarlo Pacenti, produttore a Montalcino, che pur non avanzando nessuna chiusura ha messo in risalto il problema di un utilizzo delle varietà resistenti attuali in un territorio particolare come Montalcino e contraddistinto dal legame identitario terroir vitigno che ha reso il Brunello una eccellenza mondiale.
Le proposte per l'utilizzo delle attuali varietà resistenti sono state molte, dall'uso per vini particolari ottenuti con quelle varietà, all'uso, se sarà possibile, nelle Doc all'interno delle percentuali minori rispetto ai vitigni caratterizzanti, o come ha ipotizzato il presidente nazionale della Cia Dino Scanavino, la realizzazione di denominazioni di origine specifiche per questi vitigni.
Come evolverà l'uso delle varietà resistenti nella viticoltura e nell'enologia italiana, e in futuro come si potranno usare le possibilità offerte dalla scienza, resta ancora da vedere. Il Forum di Firenze sembra mostrare un settore aperto, anche mentalmente. Speriamo che lo sia.