Così spiega la genesi dell’iniziativa della Società agraria di Lombardia (costituita a Milano nel 1862 e oggi presieduta da Ettore Cantù) il professor Dario Casati, uno fra i più noti economisti agrari in Italia, già prorettore dell’Università di Milano. E il suo è un approccio bilanciato, per quella che sembra quasi essere una “Carta bis” di Milano.
Che la Carta di Milano non fosse piaciuta molto agli addetti ai lavori, era cosa nota. E non era mancato chi, addirittura, l’aveva definita come la raccolta dei consigli di Nonna Papera.
Professor Casati, sulla Carta di Milano lei ha scritto su “Georgofili.info” che “fa nascere più dubbi che certezze, più perplessità che consensi, più delusione che entusiasmo sia per l’impostazione generale sia per i contenuti”. Perché?
“Perché l’impostazione appare pomposa e ambiziosa per alcuni aspetti, sciatta nella presentazione e nelle modalità proposte per affrontare un tema di grande complessità”.
Mentre sul versante dei contenuti?
“La trovo debole non solo per i contenuti, ma anche nella progettualità concreta. Diciamolo: appare prigioniera delle mode e di ideologie che, benché diffuse, sono inadatte ad affrontare i principali aspetti della questione”.
Eppure la Carta richiama la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo…
“Più che richiamarli, direi che li deforma”.
In che senso?
“Diritto fondamentale non è il cibo, ma l’alimentazione, che rientra tra quelli che, come la salute, permettono tout court la sopravvivenza. L’alimentazione è cosa diversa dal semplice cibo”.
Da dove nasce questo corto circuito, secondo lei?
“Non saprei. Ho notato, però, che la confusione coincide con l’impostazione gastronomica prevalente dell’Expo, che piace a molti, giova ad alcuni, ma non è il cuore del problema alimentare, né attuale né futuro”.
Quali sono le dimenticanze più clamorose, a suo parere?
“L’aspetto più deludente è la ridottissima presenza dell’agricoltura vera e propria, proprio in un documento in cui vengono richiamate tante tematiche collaterali. Quasi una concessione obbligata a cui far ricorso con fastidio e sufficienza”.
Quali sono, invece, i punti chiave del contributo della Società agraria di Lombardia?
“Potremmo partire, ad esempio, su come aumentare quantità e qualità degli alimenti, come intervenire nell’utilizzo dei progressi scientifici e tecnologici necessari, come sviluppare la produttività dell’agricoltura e delle risorse naturali limitate a disposizione del Pianeta”.
Sono aspetti che mancano nella Carta di Milano?
“Purtroppo sì. Devo riconoscere che il lavoro è molto ampio, ma francamente mi sembra un lavoro inquadrato col cannocchiale, che ha perso di vista l’obiettivo”.
Un fuori tema…
“Senza dubbio. E potrebbe anche essere pericoloso, se qualcuno mai si sognasse di voler imporre alcune delle proposizioni che appaiono, ma forse non sono, generiche, sostenute da una valanga, incontrollata e incontrollabile, di adesioni volenterose, ma forse sprovvedute”.
Allora quella che la Società agraria di Lombardia, di cui lei è consigliere, è una “Contro-carta”, non le pare?
“No. Il documento della Società agraria di Lombardia è un contributo operativo e concreto su come fare per rimettere al centro l’agricoltura e su come cercare di assicurare il diritto all’alimentazione. Non è una Contro-carta. Non si è cercata né voluta la polemica e le valutazioni che ho espresso sono a titolo personale, naturalmente. Non vorrei davvero che qualcuno soffiasse sul fuoco del conflitto gratuito”.
Come sta andando, secondo lei, Expo?
“Quello che sappiamo è che il sito di Rho fa un gran numero di ingressi, in particolare nei weekend. Il numero di biglietti è enorme, tenuto conto che dopo le ore 19 si entra con 5 euro. La movida di Milano si è spostata a Expo, con immensa delusione dei bar e dei ristoranti del centro storico”.
Qual è il vulnus di Expo?
“Dal mio punto di vista personale bisogna individuare cosa ci aspettiamo. L’attuale gruppo dirigente, quello rappresentato dalla fase post Letizia Moratti, per intenderci, si aspettava un ritorno in termini di gente, turismo, ristorazione e prodotti agroalimentari. Se dunque l’obiettivo era attirare gente generica, allora in questo ci stanno riuscendo. Quello che manca è che stiamo parlando di mettere la gente a tavola, ma non di mettere qualcosa nel piatto”.