Il dialogo all'interno della filiera e la condivisione di politiche in grado di programmare i livelli produttivi, individuare le richieste dei consumatori e mantenere il mercato in equilibrio in chiave di domanda e offerta saranno le strade da percorrere, per evitare crolli di prezzo che potrebbero dare un colpo di grazia alla suinicoltura, reduce da cinque anni di crisi nera.

E' quanto emerso ieri, 26 ottobre 2017, dagli Stati generali della suinicoltura, ospitati a Cremona all'interno della Fiera internazionale del bovino da latte, della quale la suinicoltura costituisce un'appendice particolarmente seguita, soprattutto per il fatto che la Lombardia produce il 50% della carne suina italiana e concentra nel raggio di cento chilometri dalla città del Torrazzo il maggior numero di macelli e siti per la stagionatura dei grandi salumi Dop.

Dal giugno 2016 il comparto ha rialzato la testa, grazie anche alla spinta delle importazioni cinesi. Pechino ha infatti puntato a ristrutturare il settore e ha avviato, nel frattempo, una politica di ritiro delle carni suine della quale hanno beneficiato tutti i paesi europei, seppure non tutti - l'Italia è un esempio - abbiano partecipato al flusso commerciale verso l'ex Celeste Impero.
Anzi, proprio le difficoltà che l'Italia ha incontrato nello stabilire un rapporto con Pechino sono state oggetto, ieri, di un attacco ai ministeri da parte dell'assessore all'Agricoltura della Lombardia, Gianni Fava, presente alla tavola rotonda che ha visto, fra i protagonisti, Gabriele Canali (docente di Economia agraria all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e direttore del Crefis, il Centro ricerche economiche delle filiere suinicole), Lorenzo Fontanesi (presidente di Italcarni e già presidente di Opas), Enrico Cerri (presidente di Prosus), Elio Martinelli (presidente di Assosuini), Giuseppina Sassi (vicepresidente di Assica, l'Associazione degli industriali delle carni suine).

"Mentre la Spagna quadruplicava la propria produzione e apriva un canale di export stabile in Cina, noi eravamo bloccati per la vescicolare in Sardegna e in Campania, nell'immobilità dei ministeri - ha accusato -. Per vedere accreditate le regioni del Nord dalla vescicolare abbiamo impiegato anni, mentre gli altri organizzavano le proprie esportazioni".

Quanto durerà la Cina, però, non è dato sapere. Il momento del boom sembra essere passato, complice anche una politica di ristrutturazione degli allevamenti cinesi che sta portando risultati e consentirà, progressivamente, di ridurre le importazioni dall'estero.
Secondo il rapporto del dipartimento Agricoltura degli Stati Uniti, nel 2018, le importazioni cinesi di maiale dovrebbero diminuire per il secondo anno consecutivo, mentre la produzione interna di maiale dovrebbe registrare una crescita dell'1% quest'anno e del 2% nel 2018. Le importazioni cinesi di maiale registreranno una forte contrazione, pur mantenendosi ancora sopra i livelli storici.

Altrettanto innegabile è che in un'ottica di vendita di carni suine in Cina, l'Europa ha costi di produzione e quotazioni che mettono in pericolo la competitività nei confronti di altri paesi, come il Brasile o gli Stati Uniti. "La partita si dovrà giocare sulla qualità", hanno convenuto tutti i presenti.
Accanto al dialogo e alla qualità, sarà determinante programmare le produzioni, per mantenerle in equilibrio. Sarebbe un peccato perdere l'occasione di sostenere un mercato che ha tratto benefici, secondo quanto affermato da Canali, da "una congiuntura fortunata, più che da azioni strategiche degli operatori della filiera".

Il Fattore C, composto nella fattispecie da "prezzi bassi delle materie prime, un forte traino della domanda cinese, una riposta positiva del mercato del Prosciutto di Parma". Tre ingredienti fortunati, ai quali, però, oggi il direttore del Crefis giustappone ad altrettanti elementi di rischio. "L'avanzata dei cambiamenti climatici e l'impatto che hanno su coltivazioni, zootecnia e prezzi, una diminuzione del prezzo dei suini, nonostante il calo delle macellazioni, e una congiuntura positiva del Prosciutto di Parma che sta volgendo al termine". E quando i prosciutti Dop imboccano una parabola ribassista, per la suinicoltura made in Italy molto spesso iniziano i grattacapi.

In aggiunta, i prosciutti crudi Dop hanno subito un calo dei consumi del 10,9% fra gennaio e settembre, rispetto allo stesso periodo del 2016.
Ad oggi, però, la filiera può ancora contare su un mercato positivo. I prezzi al consumo dei prosciutti Dop fra la 33esima e la 36esima settimana hanno superato i 25,60 euro al chilogrammo. Nello stesso periodo del 2015 la cifra era ferma a 22,90 euro.

Un'opportunità di costruire progetti condivisi di filiera viene dalla misura 16.10.01 del Psr lombardo, il cui bando è stato prorogato al 15 gennaio. "Si tratta dell'unico caso in Italia di una misura che consente alle imprese agricole e all'industria di trasformazione di dialogare insieme per lo sviluppo del comparto", ha detto Fava.
"Con questa misura - ha spiegato - sarà possibile intercettare le risorse della misura 4.1.01 per le imprese agricole, mentre le realtà industriali di trasformazione potranno accedere ai fondi messi a disposizione della misura 4.2.01, a condizione che valorizzino le produzioni del territorio".