Gli oligoelementi sono sostanze minerali che, in piccolissime concentrazioni, favoriscono i processi biologici.
Attualmente in Italia, il mercato degli oligoelementi rappresenta un'opportunità molto redditizia per i costruttori di impianti di biogas e le aziende da loro controllate. Ma fino a che punto sono necessari questi additivi? Il loro prezzo riflette veramente il loro valore?
L'approccio di marketing degli oligoelementi ricorda, per certi versi, quello dei marchi della grande distribuzione. Se dovessimo dar retta alla pubblicità televisiva, sarebbe necessario assumere giornalmente chili di "fermenti lattici vivi", "omega 3", "sali minerali", "fibre"… e astenerci dal consumare prodotti contenenti sostanze nocive come: glutine, lattosio o colesterolo.
Nella pratica però, pochi consumatori conoscono i rischi per la salute causati dall'ingestione di tali sostanze. Spesso tali affermazioni pubblicitarie si rivelano esagerate o perfino ingannevoli, come nel caso di una nota marca di yogurt che presentava i suoi prodotti quasi come se fossero dei medicinali.
Analogamente a quanto accade nel mercato alimentare umano, venditori, "biologi" e "guru" della digestione anaerobica prescrivono allegramente l'uso di quintali dei loro integratori minerali e di altri prodotti "speciali".
Il monito è sempre lo stesso: "se non si aggiungono questi prodotti, l'impianto perderà produttività e rischierà perfino di bloccarsi".
In diverse altre occasioni, l'Autore si è già espresso (con il seguente articolo e col Manuale per il gestore dell'impianto di biogas) in merito alla necessità di fornire ai batteri delle piccolissime quantità di alcuni minerali, utili ai processi enzimatici della digestione anaerobica.
Oggigiorno, su internet, è facile trovare "ricette" di miscele minerali studiate da diversi ricercatori. Non sorprende, dunque, che molti gestori di impianti di biogas abbiano cominciato a prepararsi da soli i biocatalizzatori, acquistando i singoli ingredienti presso i grossisti di fertilizzanti e prodotti chimici industriali.
La reazione del marketing dei prodotti "speciali per la produzione di biogas" è stata quasi immediata: secondo i venditori di alcune ditte, i prodotti chimici "generici" sarebbero addirittura cancerogeni e quindi vietato il loro impiego, perché contengono sali di nichel. Invece, quelli "speciali" venduti dalle menzionate aziende, sarebbero innocui perché contengono il nichel in forma di chelato.
In questo articolo, dunque, faremo chiarezza sul ruolo del nichel nei processi anaerobici, sulla sua nocività, e infine vedremo i vantaggi e gli svantaggi del chelato.
A cosa serve il nichel nel processo di digestione anaerobica
Esiste abbondante bibliografia in materia: la gran parte proviene dalla Germania.
Per la stesura di questo articolo l'Autore si è basato su alcune prove realizzate nel proprio laboratorio, su uno studio sperimentale condotto in Svezia (Cobalt and Nickel, Bioavailability for Biogas Formation, Jenny Gustavsson, Linköping Studies in Arts and Science No. 549, Water and Environmental Studies, 2012) e un altro studio, puramente bibliografico, pubblicato da quattro ricercatori malesi (Impacts of trace element supplementation on the performance of anaerobic digestion process: A critical review; Bioresource Technology, march 2016, Yee Yaw Choong, Norli Ismail, Ahmad Zuhairi Abdullah, Mohd Firdaus Yhaya).
Essendo la materia molto complessa, riassumeremo in pochi paragrafi circa duecento pagine di studi.
Il metano è prodotto da due gruppi di microorganismi antagonisti: le Archaea acetoclastiche e le Archaea idrogenotrofe.
Le prime sono responsabili di circa il 70% del metano prodotto durante la digestione anaerobica, e il loro metabolismo richiede la disponibilità di Ni, Co e Fe nel medio nutriente.
Pertanto è raccomandabile che siano presenti in quantità sufficiente e in forma assimilabile dai microrganismi i seguenti sali solubili: nitrati, cloruri, solfati e fosfati.
Le Archaea idrogenotrofe invece, sono più attive in un medio carente dei suddetti metalli.
Si capisce, dunque, che il dosaggio di oligoelementi deve rispettare un delicato bilancio: non deve essere troppo alto, per non inibire le Archaea idrogenotrofe.
Inoltre, non basta la mera presenza dei minerali, ma devono anche essere assimilabili dalle Archaea acetoclastiche.
Figura 1: Effetto dell'aggiunta di oligoelementi ad un inoculo che non ne aveva bisogno, risultando: 8% di produzione in meno.
Prova realizzata dall'Autore con l'inoculo di un impianto a insilato di mais e letame bovino che non presentava particolari problemi.
Aggiungere più oligoelementi di quelli che servono non solo è uno spreco di denaro, ma comporta anche perdite di produttività
Esistono due casi in cui le Archaea non riescono ad assimilare Ni, Co e Fe: quando gli ioni metallici sono chelati dall'acido fitico e quando l'idrogeno solforato reagisce con essi, precipitandoli in forma di solfuri.
L'acido fitico è una molecola molto complessa, presente principalmente nei cereali e leguminose, la quale intrappola gli atomi dei metalli. La sua forma assomiglia ad una chela di granchio, da qui tali composti si chiamano chelati.
La formazione di chelati è più frequente negli impianti alimentati esclusivamente con insilati di cereali, ma piuttosto rara negli impianti alimentati con letame bovino. Infatti, la flora batterica dei ruminanti è in grado di produrre un enzima chiamato fitasi, il quale rompe le molecole di acido fitico, rendendo disponibili i metalli per le Archaea.
Non è casualità che la moda degli oligoelementi provenga dalla Germania, Paese nel quale abbondano gli impianti di biogas alimentati esclusivamente a insilati. Come molte altre tecniche in uso nel settore del biogas, l'aggiunta periodica degli oligoelementi è stata imposta in Italia dai costruttori e biologi tedeschi "perché in Germania si fa così".
Spessissimo gli oligoelementi vengono aggiunti in base a valori ricavati da tabelle, elaborate in base alla realtà tedesca, senza però realizzare prove in laboratorio per verificare se, e in quale misura, tali ingredienti siano necessari negli impianti italiani.
Chelato sì o chelato no
L'argomento di vendita frequentemente utilizzato dai costruttori di impianti ed i loro biologi è che i sali di nichel disponibili a buon prezzo nel mercato delle commodities chimiche sarebbero cancerogeni, mentre il loro chelato no. Quanto c'è di vero in queste affermazioni? I chelati di nichel più diffusi in commercio sono prodotti industrialmente con EDTA o NTA, due agenti chelanti utilizzati per la preparazione di alcuni fertilizzanti.
Tali chelati sono molto solubili in acqua, quindi vengono facilmente assorbiti dalle piante, e secondo alcuni studi, anche dalle Archaea. Per contro, non vengono assorbiti dalle cellule umane, da qui una loro maggiore sicurezza per gli operatori.
Alcuni ricercatori contestano però l'uso dei chelati industriali di nichel, perché vengono facilmente dilavati dalle piogge e finiscono nelle falde, passando da lì all'acqua potabile. Purtroppo non esiste alcun metodo per eliminare l'EDTA, o l'NTA, negli impianti di potabilizzazione, ed eventuali accumuli di questi potrebbero (il condizionale in questo caso è d'obbligo!) comportare rischi per la popolazione.
Un altro vantaggio dei chelati è che non reagiscono con l'SH2, inevitabilmente presente nei digestori, quindi non precipitano. Pertanto, basterebbe minore quantità di nichel chelato rispetto a qualsiasi altro sale di nichel, perché il primo rimanga sempre disciolto, completamente disponibile per le Archaea.
Va comunque sottolineato che, anche nell'ipotesi di utilizzare cloruro o altro sale di nichel, le quantità necessarie per un digestore da 5mila m3 vanno dai pochi etti fino a 10 chilogrammi nel caso di carenze gravi di tale elemento.
Qualche luce sulla cancerogenicità del nichel
Il nichel è considerato un "metallo pesante", ma ciò non necessariamente implica che sia tossico. Infatti, le posate di acciaio inossidabile che tutti noi utilizziamo ogni giorno e gli orologi che molti di noi portano al polso, sono composti per il 10% fino al 14% di nichel.
Eppure l'acciaio inox è considerato uno dei materiali più sicuri per il contatto con gli alimenti e con la pelle.
Si sa che alcuni sali di nichel possono avere effetti nocivi in quanto solubili in acqua e quindi assorbibili dai tessuti vivi. La normativa internazionale è però un po' contraddittoria sul grado di pericolosità dei vari composti. Ad esempio, il database statunitense Toxnet specifica che il cloruro di nichel (Cl2Ni) non è cancerogeno, mentre quello dell'Unione europea, eChem, rimanda a diversi studi.
Fra questi ultimi, un rapporto dell'Efsa (European food security agency) segnala che una dose nel range da 42 a 129 mg di Ni/chilogrammi di peso corporeo provoca tossicità acuta in caso di ingestione. Vuol dire che un adulto di 75 chilogrammi dovrebbe ingerire un cucchiaino di tale sostanza per riportare effetti gravi.
Sempre lo stesso studio segnala:
"Non sono stati rilevati sui topi effetti cancerogeni in seguito all'assunzione per via orale di cloruro di nichel, di carbonato di nichel, e di nitrato di nichel".
"Non sono stati trovati studi che ne dimostrino la cancerogenicità del cloruro di nichel, del carbonato di nichel e del nitrato di nichel a seguito di inalazione".
E' necessario sottolineare che la cancerogenicità di un prodotto chimico è qualcosa di molto relativo. Alcuni composti di nichel si possono assorbire attraverso la pelle, causando ad esempio allergie, problema tipico di chi indossa bijouterie.
Affinché l'allergia diventi un tumore, è necessario però che l'esposizione della persona a tali agenti si protragga per molto tempo. Tale condizione è improbabile, in quanto una persona affetta d'allergia interromperebbe immediatamente il contatto con l'allergene.
Aldilà di eventuali polemiche, in Italia la materia è regolata dal Decreto leg. 60/00, il cui Annesso A recepisce la lista delle sostanze classificate cancerogene o potenzialmente cancerogene dall'Ue.
Il cloruro di nichel (Cl2Ni) non è presente nell'Annesso A, così come non lo sono né il nitrato né il fosfato di nichel. Essi si possono, dunque, considerare non cancerogeni né mutageni, quindi sicuri per chi debba manipolarli.
Il monossido, il diossido, il solfato ed il solfuro di nichel, invece, sono catalogati in categoria I (cancerogeno o mutageno) frase di rischio R49, cioè "possibilmente cancerogeno per inalazione".
Il nichel metallico (puro) ed i suoi ossidi e carbonati sono catalogati categoria 3 (non mutageno), frase di rischio R40, cioè "possibilmente cancerogeni, ma non ci sono prove sufficienti".
Conclusione
Possiamo ragionevolmente smentire le affermazioni di qualche venditore di prodotti "speciali" per biogas: l'acquisto e l'utilizzo negli impianti di biogas dei sali di nichel non inclusi nell'Allegato A del Decreto leg. 60/2000 (cloruro, fosfato e nitrato di nichel) non è soggetto ad autorizzazioni, registri speciali o particolari prescrizioni.
Valgono solo le norme di sicurezza elementari, comuni alla manipolazione di tutti i prodotti chimici o agrochimici: indossare guanti, occhiali protettivi e maschera antipolvere, non fumare né mangiare negli ambienti dove si effettuano tali lavori, non stoccare i prodotti chimici assieme ad alimenti, restringere l'accesso al deposito ai soli addetti ai lavori.