Dopo lo scandalo delle autovetture VW, e di altre marche, "truccate" per rispettare i limiti di legge sulle emissioni inquinanti, ora abbiamo la prova tangibile dell'esistenza di "furbetti" anche nell'Europa centrale.

Nonostante il mercato del biogas sia infinitamente più piccolo di quello dell'automobile è stato ugualmente colonizzato dalla tecnologia tedesca, in particolare dai costruttori di impianti e macchinari.
Va da sé che il predominio nel mercato della fornitura degli impianti comporta anche l'occupazione della nicchia di mercato post-vendita: l'assistenza biologica.
Con l'assurdo mantra "Si fa così perché in Germania funziona", passivamente accettato dai proprietari degli impianti, dalle banche, che addirittura esigono l'applicazione di tali metodi credendo di tutelare così i loro investimenti, e perfino da una frazione del mondo accademico, teorie e metodi di gestione del processo anaerobico illogici e talvolta insostenibili ci sono stati imposti come dogmi.

In realtà, al di fuori del loro Paese d'origine, in Germania, quei dogmi diffusi come "peer review" sono spesso autoreferenziati (si veda ad esempio un caso di studio reale sulla scarsa utilità del metodo FOS/TAC) e perfino contrari ai principi fondamentali della logica.
In certi casi alcuni metodi e tecniche potrebbero valere per la realtà tedesca, ma non necessariamente anche per quella degli impianti italiani.
             
L'uso, spesso spropositato, degli oligoelementi ed additivi di vario tipo, già approfondito in un precedente articolo dello stesso Autore, si può considerare come l'esempio di questa cultura pseudoscientifica.

Nel presente articolo, primo di una trilogia, faremo chiarezza riguardo alle principali informazioni fuorvianti diffuse dai venditori di alcune note aziende del settore del biogas, la maggior parte straniere o comunque fortemente vincolate a potenti gruppi stranieri.
Intendiamo dunque fornire al lettore una guida pratica che gli consenta di valutare autonomamente la convenienza economica, o meno, di un determinato prodotto in termini di costi/benefici, o di resa.

Il business della desolforazione del biogas
Tutte le biomasse contengono zolfo in maggiore o minore proporzione. La degradazione della materia organica ad opera dei batteri anaerobici comporta la formazione di acido solfidrico, SH2, il quale è inibitore dei processi biologici e anche corrosivo delle parti metalliche.

Si rende pertanto necessario desolforare il biogas, principalmente per proteggere il motore.
La desolforazione può avvenire sia per metodi biologici, ad opera di batteri che precipitano il SH2 come S libero, che chimici, utilizzando basi (calce, soda caustica, carbonato di sodio) oppure composti ferrici (quelli in cui il ferro si trova in stato trivalente).
La maggior parte dei costruttori europei non dota gli impianti di biogas di appositi desolforatori, come invece è di prassi in Usa, Cina ed India.

Diversamente, nel nostro continente, la desolforazione in situ (nello stesso digestore) è la scelta progettuale più diffusa.
Tale tecnica comporta l'immissione di una piccola quantità di aria nel digestore, necessaria ai batteri solforiduttori, ma che comporta una seppur piccola riduzione del tenore di metano nel biogas.

Poiché tale metodo è economico (per il costruttore dell'impianto!) ma non necessariamente efficace nell'abbattimento dello zolfo, talvolta richiede anche l'aggiunta dei classici "prodotti speciali", generalmente i più cari fra tutte le alternative possibili.
E anche più cari rispetto ai loro equivalenti "generici" dell'industria chimica.

Il desolforante più economico ed ecocompatibile, ma che nessun "biologo" vuole raccomandare, proprio perché facilmente reperibile e che consente l'indipendenza del gestore dell'impianto, è la calce viva (ossido di calcio, OCa). La stessa reagisce con l'acqua di diluizione, formando calce spenta (idrossido di calcio, Ca(OH)2).

Questa può reagire sia con l'SH2 che con la CO2 disciolti nel digerente, formando rispettivamente gesso (solfato di calcio, SO4Ca) che carbonato di calcio (calcare, CO3Ca).
Il carbonato di calcio a sua volta reagisce con l'SH2 e forma ancora gesso. Il gesso tende a precipitare e quindi a rimanere nel fondo del digestore, perciò è necessario prevedere un sistema di agitazione correttamente regolato in modo da mantenere in diluizione o in sospensione nel digestato.
La presenza di gesso e calcare non altera sostanzialmente le proprietà fertilizzanti di quest'ultimo, in quanto entrambi sono componenti abituali dei suoli.

Altri venditori spingono all'uso del bicarbonato di sodio, al quale prossimamente dedicheremo un articolo specifico.
Per il momento ci limitiamo a ricordare che le reazioni del bicarbonato di sodio sono simili a quelle descritte per la calce, con il vantaggio che i composti di sodio sono più solubili degli omologhi composti di calcio, e lo svantaggio che il sodio riduce in parte l'effetto fertilizzante del digestato.

I desolforanti preferiti dalle aziende che gestiscono impianti di biogas per contro terzi, e nel contempo vendono anche i consumabili, sono i composti ferrici.
Tecnicamente la scelta è corretta, in quanto il ferro trivalente, presente nell'ossido ferrico (O3Fe2), nell'idrossido ferrico (Fe(OH)3) e nel cloruro ferrico (Cl3Fe), è molto efficace nel neutralizzare l'SH2, secondo le seguenti reazioni:
  • Ossido ferrico
    3 SH2 + O3Fe2 (in medio acquoso) → S3Fe2 + 3 H2O
  • Idrossido ferrico        
    2Fe(OH)3 + H2S  → 2Fe(OH)2 + S + 2H2O
  • Idrossido ferroso
  • Fe(OH)2 + H2S → FeS + 2H2O
  • Cloruro ferrico
    3SH2 + 2Cl3Fe → S3Fe2 + 6HCl
Il fatto è che tale scelta tecnica comporta lauti guadagni per chi vende i composti ferrici ai gestori degli impianti di biogas poco avveduti, che in buona fede credono di comprare i migliori prodotti per proteggere i loro motori.

Nella tabella 1 abbiamo comparato tre offerte di diversi fornitori: un costruttore di impianti di biogas, un'azienda tedesca di prodotti "speciali" per biogas, e un fornitore di prodotti "standard" per l'industria chimica.
I due primi hanno battezzato i loro prodotti con nomi di fantasia, che qui verranno chiamati X e Y per ragioni di copyright, ma in sostanza si tratta di semplice idrossido ferrico, tra l'altro, non precisamente della migliore qualità.
 
Tabella 1: Comparazione fra tre prodotti desolforanti in commercio
 
Conclusioni
Dallo studio comparativo illustrato nella tabella 1 si desume che i prodotti "speciali per desolforare", oltre a costare di più e contenere meno ferro attivo rispetto all'ossido ferrico standard, contengono diversi elementi nocivi, quali: cromo esavalente, piombo, mercurio, arsenico, tallio e rame.
Le concentrazioni di tali inquinanti, come dichiarate nelle schede tecniche dei rispettivi fornitori, sono inferiori ai limiti ammissibili nei fertilizzanti, ma si tratta comunque di impurità indesiderabili, la cui presenza è incongrua con i prezzi esosi praticati dai fabbricanti.

La calce viva, al pari dei composti ferrici, presenta lo svantaggio di essere scarsamente solubile in un mezzo acquoso, quindi anch'essa tende a precipitare sul fondo del digestore quando l'agitazione non è regolata adeguatamente. Tuttavia, rispetto ai composti ferrici, la calce costituisce una alternativa più conveniente.

La migliore opzione in assoluto, sia per risparmiare costi di gestione che per migliorare l'efficienza del processo di digestione anaerobica, è l'installazione di un'unità di desolforazione esterna al digestore poiché offre il vantaggio di rigenerare l'ossido ferrico, per ben quattro o cinque volte, semplicemente esponendo il solfuro ferrico all'aria.

Foto 1: Unità di desolforazione esterna mediante ossido ferrico, sistema largamente diffuso in Cina
(Fonte foto: Made-in-China.com).
Qualsiasi officina metalmeccanica italiana sarebbe in grado di produrre tale sistema con costi contenuti.
Costituisce un esempio di "tecnologia adeguata", semplice, economica e libera da brevetti, quindi per tale motivo poco appetibile per il marketing