"Siamo reduci da decenni di Green Revolution a colpi di notevoli quantità di concimi di sintesi e lavorazioni profondissime. Le pratiche adottate a partire dagli Anni Cinquanta e fino più o meno alla fine degli Anni Novanta. Oggi i figli e i nipoti di quegli agricoltori hanno un approccio molto più soft e consapevole, dobbiamo riconoscerlo. Ma dobbiamo anche essere consapevoli che per riportare le condizioni del suolo in una condizione effettivamente migliore avremo di fronte a noi altri trenta o quaranta anni di buone pratiche agricole. Quindi, in sintesi: lo stato di salute del suolo non è ovviamente dei migliori, è indubbio. Ma non è che il suolo oggi sia ancora trattato male al punto da essere sul punto di essere ulteriormente rovinato".
Carota, bastone, pazienza e costanza. Si può sintetizzare così l'analisi del professor Giuseppe Corti, direttore del Crea Agricoltura e Ambiente, in occasione della Giornata Mondiale del Suolo (5 dicembre 2022), celebrazione relativamente recente di un elemento essenziale per la produzione agricola.
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Peraltro, il Crea inaugurerà a Fagna (Firenze) la prima pedoteca italiana, in cui sono raccolti migliaia e migliaia di campioni di suolo, totalmente differenti fra loro, fisicamente, chimicamente e anche geograficamente. Si tratta - sottolinea il Crea - di un patrimonio di conoscenze e di dati relativi al suolo, una risorsa ancora misconosciuta e inesplorata, attraverso cui passano la sicurezza alimentare, la tutela degli ecosistemi e il contrasto al cambiamento climatico.
Professor Corti, qual è lo stato di salute del suolo agricolo?
"Indubbiamente non è dei migliori, ma dagli Anni Duemila la sua condizione è migliorata, grazie anche alle conoscenze della ricerca scientifica e alla sensibilità dell'opinione pubblica e degli agricoltori. Dire che oggi il suolo è in buone condizioni è una stupidaggine, ma non possiamo nemmeno dire che il suolo è in condizioni di rovina e che lo stiamo continuando a rovinare. Piuttosto, dobbiamo spiegare che a livello italiano ed europeo sono stati fatti sforzi notevolissimi per migliorare la condizione del suolo, anche se in venti anni non si fanno i miracoli.
Come parziale esimente, però, dobbiamo ammettere che in passato non avevamo grandi conoscenze in tema di salute del suolo e quindi ci siamo affidati a scorciatoie che non sempre si sono rivelate esatte".
Ad esempio?
"Sintetizzo: manca la sostanza organica nel suolo. E quindi? Caro agricoltore, buttaci la sostanza organica e questa, automaticamente, aumenterà. Invece non è vero. Abbiamo scoperto che il sovescio o certe letamazioni non portano alcun beneficio".
Spieghi meglio.
"Se utilizziamo letame troppo liquido, come può essere in parte il letame dei suini oppure il letame delle vacche da latte di ultima generazione, perché hanno deiezioni quasi liquide, anziché aumentare, la sostanza organica nel giro di sette, otto mesi diminuisce. Questo prima non si sapeva. Oppure: se ricominciamo a dare sostanza organica al suolo, ma abbiamo aspettato che il suolo ne contenesse troppo poca, non otterremo nessun risultato. Il suolo ha un comportamento simile all'uomo: se attendiamo di avere un moribondo, difficilmente riusciremo a rimetterlo in sesto".
Qual è la situazione a livello europeo?
"Nel Nord Europa lo scenario è leggermente migliore, perché c'è un clima più favorevole. Grazie alla pioggia e alle temperature più fredde la sostanza organica diminuisce più lentamente nei suoli agricoli, per cui si ritrovano con suoli in condizioni migliori, pur avendo talvolta trattato il terreno peggio di noi. Se dovessimo tirare una linea, potrebbe idealmente attraversare la Germania a metà, se mi consente una rapida semplificazione".
Diversa è la situazione nell'Europa del Sud?
"Sì. Siamo messi peggio. In Italia, Grecia o Spagna, ma anche nel Nord Africa, la sostanza organica è volata via, diventando anidride carbonica, con una riduzione della fertilità generale, aumento dell'erosione del suolo, minore capacità di bloccare i metalli pesanti come nichel, piombo, zinco, vanadio o altre sostanze dannose di tipo organico. In queste condizioni, inevitabilmente, diminuisce la biodiversità.
Una buona agricoltura, invece, con un corretto apporto di sostanza organica permette di degradare tramite la sostanza organica anche sostanze come diossine, benzeni e furani, tanto che attraverso alcuni ceppi di microrganismi alimentati dalla sostanza organica del suolo è possibile di fatto curare il terreno dagli inquinanti organici. Dobbiamo però continuare con le buone pratiche agricole per i prossimi trenta, quaranta anni".
Giuseppe Corti, direttore del Crea Agricoltura e Ambiente
(Fonte foto: Giuseppe Corti, direttore del Crea Agricoltura e Ambiente)
Lei prima ha parlato di lavorazioni profondissime, che in passato erano una regola. L'aratura in sé fa male?
"Non fa bene, ma è un male necessario. Anche perché con certe tipologie di suolo senza aratura non si produce. È facile parlare di semina su sodo, ma un conto è praticarla in Pianura Padana, un altro sui suoli della catena pre appenninica. In quest'ultimo caso potrebbe essere utile un'aratura leggera, con profondità massima da 20-25 centimetri per i cereali; in questo caso, direi che male non fa. Tuttavia, soprattutto in caso di monosuccessioni come grano su grano, si rischia di accelerare l'erosione del suolo e dovremmo pertanto intervenire con azioni di riduzione delle erosioni, magari ricorrendo alle cover crop, o a consociazioni di leguminose e cereali".
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L'agricoltura di precisione può aiutare?
"Certo. È quella la direzione da prendere. Con un'avvertenza, e lo dico da componente del Tavolo Tecnico dell'Agricoltura di Precisione al Ministero dell'Agricoltura".
Dica.
"Bisogna fare qualcosa di innovativo, inutile contare i granuli di urea da distribuire per metro quadrato, altrimenti gli agricoltori non capiranno. Anche perché un conto è fare precision farming nelle distese del Wyoming, un altro in Pianura Padana, un altro ancora sulle colline o sulle nostre montagne. Dobbiamo da un lato procedere con la mappatura dei terreni, così da somministrare le corrette quantità di concime. Così non solo spenderemo meno per ettaro, ma con la giusta dose di azoto in campo, ad esempio, renderemo le piante meno sensibili ai patogeni.
E poi torniamo a seminare specie che abbiamo abbandonato e che si possono adattare ai diversi terreni. Lo dico non da fanatico dei grani antichi, perché sarebbe un controsenso rispetto anche alla mia vocazione di ricercatore, ma torniamo a produrre ceci, cicerchie, pisello, anche fino a 900 metri di altitudine; è possibile produrre farro fino a 1.300 metri di altezza; i grani antichi hanno bisogno di pochi trattamenti, danno soddisfazione economica all'agricoltore".
La missione è dunque recuperare i territori marginali con colture su misura per ogni tipo di suolo?
"Esattamente. Come le dicevo, dobbiamo diversificare, riguadagnare i territori che abbiamo abbandonato per politiche sbagliate internazionali e nazionali. Rifletta: quando lo smaltimento di 1 quintale di spazzatura costa più di 1 quintale di grano, capisce bene che qualcosa è andato storto. Ma non dimentichiamo che se gli agricoltori abbandonano i suoli, questi sono preda di frane.
Per cui l'obiettivo deve essere quello di recuperare territori anche marginali, con colture che si adattino a quei suoli, così da permettere di presidiare di nuovo il territorio".
Come giudica la prima proposta licenziata dalla Commissione Europea di certificazione volontaria degli assorbimenti di carbonio?
"L'intendimento della Commissione Ue di per sé non è male. Il problema, semmai, è che l'abbiamo lasciata come proposta volontaria e dietro il volontarismo potrebbero annidarsi aspetti di speculazione notevole. Forse sarebbe stata meglio una normativa stringente, anche per il fatto che gli agricoltori compiono inevitabilmente e quotidianamente un'attività di assorbimento di anidride carbonica. È bene, in particolare, sapere che l'unico suolo che non procede a singhiozzo nell'attività di assorbimento di anidride carbonica è quello gestito dagli agricoltori.
Paradossalmente, se si analizzano i dati, anche le foreste raggiungono un plateau di assorbimento, dopo circa 23-25 anni, tempo massimo in cui sarebbe consigliabile intervenire nella gestione della foresta o del bosco. Questo significa che dovremmo tagliare un bosco dopo 25 anni? Assolutamente no, perché il valore intrinseco del bosco abbraccia molteplici aspetti, che spaziano dal valore estetico a quello culturale, sanitario, connaturato all'armonia e al benessere che infonde".
Ritiene ci siano visioni diverse?
"Indubbiamente sì. Dovremmo riconoscere all'agricoltore un premio per il carbonio stoccato nel suolo, per il sequestro di anidride carbonica, ma anche perché se un agricoltore cura un vigneto, un frutteto, un oliveto, riesce a incorporare sostanza organica, con un beneficio immenso. Riconosciamolo. Ma temo che le posizioni dei Paesi del Nord Europa, dove per il clima è più difficile operare il sequestro di carbonio, siano diverse da quelle del Sud Europa".
Quale potrebbe essere un prezzo equo o almeno ragionevole per un credito di carbonio, che come è noto corrisponde ad una tonnellata di CO2 equivalente che è stata sottratta dall'atmosfera o di cui si è evitata l'emissione?
"È difficile dare una risposta esaustiva ed è impossibile darla su due piedi. Alcuni Stati hanno avanzato l'ipotesi di riconoscere un valore intorno ai 5 euro per ogni credito di carbonio, altri di 8 euro, altri ancora 50. Bisogna essere consapevoli, prima di sparare numeri che dovrebbero essere vagliati attentamente, che si dovrebbe arrivare a una certificazione in termini di valore che sia legata al sistema agroforestale in cui operiamo. Non penso che possano essere omologati sullo stesso valore i pioppeti della Finlandia o della Svezia al vigneto sull'isola di Pantelleria, che ritengo possa valere di più, anche per le condizioni geoclimatiche in cui si trova a crescere".
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