Sulla rete girano filmati inquietanti di massaie inseguite da branchi di cinghiali all'uscita del supermercato; in almeno un centinaio di città italiane gli avvistamenti sono oramai abitudinali. A Roma, Torino, Genova e Trieste vi sono già stati numerosi problemi di sicurezza stradale e di incolumità delle persone. Tutte cose che, per chi abita in collina e in montagna, son però note perlomeno da un paio di decenni.
Secondo i dati dell'Ispra, Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, nel 2000 la popolazione di cinghiali in Italia era pari a 300mila capi; oggi è più che triplicata arrivando a oltrepassare il milione.
Un fenomeno ecologico di evidente portata storica dovuto a vari motivi: dall'abbandono delle campagne con il conseguente avanzare prodigioso delle forre (i boschi si espandono al ritmo di più di 25mila ettari all'anno) alla cattiva programmazione urbanistica e alla pessima gestione dei rifiuti urbani (il caso di Roma è eclatante).
Non ci sono però solo i cinghiali. Gli squilibri ecologici comportano millanta problemi a tutti i livelli, dalle specie vegetali e animali invasive fino alle nuove malattie zoonotiche (uno dei veri grandi problemi dell'umanità - covid docet). Negli Stati Uniti, per esempio, la malattia di Lyme - una sindrome batterica trasmessa da zecche del genere Ixodes (ben presente purtroppo anche in Italia) - ha avuto negli anni Ottanta e Novanta un tasso di crescita inferiore solo a quello dell'Aids.
Gli studiosi di ecologia (da non confondersi con gli ecologisti, please) hanno poi dimostrato che la malattia si è diffusa per effetto di forti squilibri dovuti all'antropizzazione e soprattutto per la mancanza di biodiversità. Biodiversità non è però un concetto legato esclusivamente alla natura selvaggia, anzi. Le campagne ben tenute e coltivate sono splendidamente "biodiverse" e sono frutto del lavoro degli agricoltori (quelli veri). Un patrimonio di tutti.