"Non c'è alcun dubbio che la politica protezionistica annunciata da Trump ha accelerato il raggiungimento di intese fra l'Unione europea e il Canada e fra l'Ue e il Giappone. Questo è evidente.
Quali saranno i vantaggi immediati del Ceta, che è l'accordo già approvato dal Parlamento europeo, è difficile individuarli. Potrebbero esserci o non esserci, ma di certo il mondo ha bisogno di aprirsi, anche per non dare legname da ardere ai populisti. Il mondo aperto è garanzia di pace. Altrettanto innegabile è che le aperture provocano cambiamenti, con la necessità di innovare e, se del caso, di cambiare la visione di quanto si può fare in un certo Stato"
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Parole di Luigi Costato, emerito di Diritto agrario all'Università di Ferrara. A lui, grande esperto di dinamiche comunitarie e di trattati internazionali, si è rivolta AgroNotizie per un parere sul Ceta, l'accordo di libero scambio fra Ue e Canada, che sta dividendo il mondo agricolo tra favorevoli e contrari all'intesa.

Professor Costato, avere raggiunto un accordo definitivo col Canada e avere ottenuto un'intesa sul piano politico col Giappone assicura maggiore autorevolezza all'Unione europea?
"Il discorso è un po' più ampio. La competenza in materia di accordi commerciali non è di oggi, ma è stata assegnata all'Unione europea già con il Trattato di Roma del 1957, quando ancora si chiamava Comunità e, paradossalmente, era più unità di oggi che si chiama Unione.
Parlando di accordi internazionali, il punto di svolta è stato l'Accordo di Marrakech del 1994, che ha sancito la nascita dell'Organizzazione mondiale del commercio e che fra gli obiettivi prevedeva accordi multilaterali e plurilaterali. Tuttavia, non ebbe un esito felice, ma non per colpa di Trump, ben lontano dall'essere eletto, ma per il blocco di altri paesi, come ad esempio l'India"
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Da quel momento si è pensato di stipulare accordi bilaterali.
"Sì. Dal punto di vista agricolo, banalizzando molto, i negoziati si possono svolgere con due diversi tipi di Stati: quelli relativamente deboli, come potrebbero essere, ad esempio, quelli che aspirano ad entrare in Ue, come Serbia o Macedonia. E' più facile, con loro, raggiungere nuove intese, proprio per il fatto che hanno interessi particolari come potrebbe appunto essere il desiderio di ingresso nell'Unione europea
Al contrario, potrebbe essere più complesso raggiungere accordi con paesi cosiddetti 'forti', economie evolute con redditi medi elevati o che non hanno obiettivi per i quali rivelarsi più morbidi in fase negoziale.
Tali paesi 'forti' non hanno la necessità di chiudere un accordo a tutti i costi o comunque senza adeguate contropartite. Però dobbiamo riconoscere che con il Giappone si sono strappati consensi su oltre 205 Dop e Igp. Con il Canada le cose sono più complesse"
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Per quali ragioni?
"Il problema delle Dop e Igp non è di ordine politico: non riguarda cioè lo Stato contraente, ma è un problema di riconoscimento giuridico. Si veda la questione in Canada del marchio Prosciutto di Parma. Una legge su marchi e brevetti tutela il nome depositato da un'azienda canadese e non il Prosciutto di Parma italiano".

Questo fino appunto alla sottoscrizione del Ceta…
"E' vero. L'accordo prevede la coesistenza della denominazione Prosciutto di Parma e del marchio Parma. Nel 1994, ricordo, ci fu il caso della ditta spagnola Codorniu, che si vide vietato l'uso del termine crémant, perché l'Unione europea aveva riconosciuto la Denominazione d'origine protetta per una specifica tipologia di spumanti in Francia e Lussemburgo.
La Corte di giustizia europea accolse il ricorso dell'azienda spagnola, che fin dal 1924 aveva depositato il marchio Gran Cremant de Codorniu. Venne, in particolare, ritenuto valido il principio in base al quale la ditta aveva depositato e utilizzato il marchio in buona fede per un periodo sufficientemente lungo, dal momento che era diventato un marchio distintivo.
In base a tale principio, ritengo difficilmente risolvibili i contenziosi con il Canada o anche con gli Stati Uniti, perché entrambi dovrebbero abrogare le leggi in vigore e negare i propri marchi. Certo l'Italia dovrebbe affiancare all'agroalimentare altre linee di sviluppo, parlando del nostro paese in termini più generali: accanto all'agroalimentare dovremmo puntare sul turismo e sulla valorizzazione del nostro grande patrimonio storico e artistico"
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L'industria molitoria e pastaia, della quale lei è stato presidente negli anni Novanta, si è dichiarata favorevole al Ceta. Cosa ne pensa?
"E' evidente: l'Italia non è autosufficiente nella produzione di grano, è un dato di fatto. L'importazione si deve fare. Poi si può cercare di limitare l'uso dei prodotti di importazione, attraverso il meccanismo del made in Italy. Ma la pasta per venire bene ha bisogno di un grano duro migliore di quello prodotto in Italia, che ha grano un po' tenero e debole di glutine. Per questo si deve importare e ricorrere alle miscele".

Quale soluzione potrebbe essere ricercata per tutelare il grano italiano?
"Certamente non deve essere vietata l'importazione dal Canada. Piuttosto, dobbiamo vendere meglio il grano italiano e creare Op che siano capaci di stare sul mercato. La concentrazione dell'offerta è ammessa dall'articolo 42 del Trattato, serve a realizzare una maggiore forza competitiva del venditore, ma non si è mai pensato di farlo fino in fondo e ci si limita a vendere quantità limitate di prodotto. La soluzione non è il protezionismo, però.
La Coldiretti, invece, dovrebbe spendersi per organizzare il mercato, per spingere i loro associati a rafforzare la domanda, che è favorita anche dall'Unione europea attraverso strumenti economici. Invece oggi, parlando di grano, ma anche di altri prodotti, il prezzo viene fissato in maniera indecente, per essere chiari"
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Ritiene che debba essere rivista l'organizzazione delle Borse merci, verso commissioni uniche o verso sistemi di scambi digitali?
"Assolutamente sì. Ci sono troppe commissioni che quotano, servirebbe una riforma delle Borse merci e procedere celermente verso una concentrazione dell'offerta. Abbiamo bisogno di avere un operatore che gestisce 500mila o 1 milione di tonnellate di grano, perché senza tali livelli di offerta, il mercato diventa vittima del prezzo e il produttore è quello più esposto alla volatilità o alle speculazioni".

Ci sono margini per fare meglio?
"Sì, ovvio. La concentrazione del prodotto e la riorganizzazione delle modalità di vendita sono i modi per contrastare lo strapotere di prodotti europei ed extraeuropei. Dobbiamo raggiungere una maggiore concentrazione dell'offerta e, soprattutto, dobbiamo occuparci più di politica economica spicciola".

Ritorno su un punto: grazie al Ceta e all'intesa col Giappone, l'Ue ha ritrovato maggiore credibilità agli occhi degli anti-europeisti?
"Per limitare certi fenomeni bisognerebbe cominciare a evitare certe dichiarazioni fuori luogo. Se Renzi dice che vuole avere il 2,9% di flessibilità e di portare, cioè, l'indebitamento netto al 2,9%, fa un'affermazione molto rischiosa. Tale richiesta la potrebbe avanzare la Germania, che ha il debito pubblico al 70%, non certo l'Italia che ha parametri oltre il 130%. Il nostro debito pubblico deve assolutamente rientrare, perché altrimenti il rischio è di ritornare a livelli di spread del 500% e di non riuscire più a rientrare".

Juncker ha risposto piccato a Renzi, però.
"Indubbiamente. Juncker e Renzi hanno tradito un certo nervosismo che non dovrebbero manifestare. Sono dichiarazioni che fanno male all'Unione europea, la cui costruzione è ancora a metà".

Che cosa significa?
"Oggi la struttura dell'Ue corrisponde a un modello di tipo confederale, cioè è una Unione senza sovranità. Si deve invece arrivare a una Unione europea dotata di sovranità, altrimenti sarà sempre un progetto incompleto, con conseguenti uscite negative".