Un compromesso al ribasso, il primo della storia dell’Unione europea che si è concluso con una dotazione finanziaria inferiore alla precedente programmazione.

Questo il giudizio dominante, al quale hanno aderito volentieri anche i vertici delle organizzazione agricole Italiane – Coldiretti, Copagri e Agrinsieme, il patto di sindacato che raggruppa Cia, Confagricoltura e Alleanza delle cooperative agroalimentari – espresso all’indomani della lunga maratona dei capi di Stato e di Governo che la scorsa settimana ha dato il via libera al Quadro Finanziario Pluriennale per il periodo 2014-2020.

Ha vinto il fronte dei Paesi del Nord Europa, tradizionalmente rigoristi, mentre quello più mediterraneo – tra cui Italia, Francia e Spagna – ha dovuto per ora cedere, ma senza osare ricorrere all’arma letale del veto. Nella speranza che, alla prova del nove politico del nuovo Trattato che assegna al Parlamento europeo il ruolo della codecisione, l’Aula di Strasburgo si metta di traverso con una clamorosa bocciatura. Possibilità non esclusa dallo stesso presidente della Commissione Agricoltura, Paolo De Castro. Staremo a vedere.

Per ora resta l’eloquenza dei numeri, che indicano per i prossimi anni un taglio di ben 120 miliardi di euro a livello globale, una sforbiciata alla quale la Politica agricola comune partecipa con un sacrificio stimato intorno ai 16,5 miliardi. Insomma anche l’agricoltura, che nel bilancio europeo mantiene comunque un peso rilevante, è chiamata a pagare il suo tributo.

Visto però in chiave italiana, per l’agricoltura, le cose non appaiono solo in negativo. Stando alle prime proiezioni su scala nazionale, la scure dei tagli si abbatterebbe solo sul cosiddetto primo pilastro, quello cioè degli aiuti diretti e delle altre misure di mercato: dai 28 miliardi dell’attuale programmazione, il massimale scenderebbe a circa 27 miliardi, con una perdita di poco più di 140 milioni di euro l’anno.
Certo è un dato negativo, ma non può essere vissuto come un salasso se si considera il contesto in cui è maturato.

E’ andata invece meglio per le Politiche di sviluppo rurale, per le quali la delegazione italiana è riuscita a portare a casa un incremento di 1,5 miliardi spalmati nell’arco dell’intera programmazione, che porta il budget 2014-2020 a quota 9,26 miliardi di euro.
Un risultato, quest’ultimo, doppiamente positivo. Primo, perché questo aumento si confronta con un taglio del 10% dei fondi europei per questo settore.
Secondo, ed è forse il punto più sostanziale, perché se si guarda agli obiettivi che la nuova Pac ha l’ambizione di tracciare per il futuro - un’agricoltura più competitiva e più anche sostenibile – non c’è dubbio che quello che si continua chiamare secondo pilastro, ha tutti i titoli per essere considerato dal punto di vista della strategia il vero “primo pilastro” della Pac.

Con gli aiuti diretti, le aziende hanno la stampelle per sopravvivere a se stesse con “bilanci indigenti”, sempre più Pac-dipendenti; questi sussidi sono una sorta di bancomat, al quale prelevare per vivere alla giornata, accessibile indistintamente a tutti gli agricoltori.

C’è qualche tentativo di arginare gli abusivi, ma l’identikit dell’agricoltore attivo, al quale riservare i contributi, è tutto da costruire. Per ora una figura virtuale, che ingloba campi da gollf e scarpate ferroviarie.

Con lo Sviluppo rurale, invece, i finanziamenti sono finalizzati all’aumento della competitività del settore, promuovono i progetti di ammodernamento e potenziamento delle aziende agricole che già hanno una struttura di base, agiscono come leva finanziaria anche per il ricambio generazionale.

Così anche gli ecoincentivi – la seconda gamba dello Sviluppo rurale -  che accompagnano l’agricoltura verso un modello più sostenibile anche sotto l’aspetto ambientale. Ogni euro finanziato dall’Unione europea fa da moltiplicatore (per due e anche per tre), mettendo in conto l’attivazione di altri contributi statali e regionali, più la quota di partecipazione finanziaria a carico dell’agricoltore beneficiario.

Del resto, proprio i dati sulla spesa dei Psr regionali riferita al bilancio 2012, alla voce “ammodernamento aziendale” confermano ampiamente questo impatto positivo: i fondi destinati a questo tipo di investimento hanno raggiunto 1,2 miliardi di euro, di cui poco meno del 60% a carico dei privati.  
A conferma della vitalità imprenditoriale dell’agricoltura italiana, che non è fatta solo di orti urbani o di fazzoletti di terra che ostinatamente l’Istat continua a censire come azienda, ma anche di imprese capaci e pronte a scommettere sul futuro nonostante il pesante fardello dell’attuale crisi e il nodo scorsoio del credito bancario.

Una clausola contenuta nell’accordo finanziario firmato la scorsa settimana consente, in nome della conclamata flessibilità, la possibilità di trasferire fino al 15% dei fondi dal primo al secondo pilastro, e viceversa.
Per le ragioni che qui si è cercato di riassumere, è auspicabile che questa opzione sia esercitata per rafforzare le politiche strutturali e che non prevalgano invece le pressioni delle tante lobby di settore, interessate a funambolici contorsionismi per tornare agli aiuti accoppiati di comodo della Pac che fu.

Per dirla con l'antica massima cinese, se regali un pesce a un uomo lo nutri per un giorno, ma se gli dai una canna e gli insegni a pescare lo nutrirai per tutta la vita.