A fare infuriare gli allevatori sardi è stato il prezzo di vendita, intorno ai 60 centesimi di euro, che i caseifici corrispondono per un litro di latte di pecora. I pastori lamentano che con queste quotazioni produrre diventa antieconomico, mentre le aziende di trasformazione si trincerano dietro al fatto che il mercato del formaggio è stagnante. Se negli anni passati infatti il boom del Pecorino romano Dop aveva trainato tutto il comparto, oggi le sue quotazioni sono crollate e sugli allevatori vengono scaricati i costi della crisi.
"Noi non ci stiamo a diventare la valvola di sfogo di politiche produttive e commerciali sbagliate. Continueremo la protesta fino a quando dal Governo e dalla regione non arriveranno soluzioni concrete", racconta ad AgroNotizie Fortunato Ladu, 59 anni, pastore da sette generazioni, nativo di Desulo, nella Barbagia. Un pastore che già in passato aveva preso carta e penna per scrivere a Bill Gates, Laura Boldrini e all'ex ministro Maurizio Martina per attirare l'attenzione sulla crisi della pastorizia sarda.
Lo raggiungiamo telefonicamente nella sua azienda agricola, dove con la moglie si prende cura di 500 pecore e dove in questi giorni stanno trasformando il latte in formaggio, il 'formaggio dell'ira', come lo hanno ribattezzato, prodotto con il latte non ritirato e che verrà venduto ad un prezzo simbolico. "Produrre un litro di latte a noi costa circa 90 centesimi di euro, se ci viene pagato 60 è un insulto. Saremmo costretti a chiudere con un danno per i consumatori e per l'economia del paese".
Fortunato Ladu con le sue pecore
Però i trasformatori affermano che non c'è richiesta di formaggio prodotto con latte di pecora. Come se ne esce?
"Questa crisi è frutto di una strategia sbagliata da parte dei caseifici. Quando le vendite del Pecorino romano Dop erano in crescita hanno aumentato a dismisura la produzione e quando il mercato si è raffreddato hanno pensato bene di abbassare i prezzi di vendita portando il settore alla crisi. Serve invece una strategia di promozione e diversificazione su altri prodotti Dop, come il Fiore sardo o il Pecorino sardo".
Non è possibile abbassare i costi di produzione del latte?
"Possibile è possibile, ma a scapito della qualità. Oggi le nostre pecore vivono allo stato semi-brado, brucano l'erba che cresce spontaneamente e questo le porta a produrre un latte eccezionale sotto il profilo organolettico e nutraceutico. Fare qualità ha un prezzo, per questo i prodotti devono essere valorizzati sul mercato".
L'industria casearia magari preferirebbe un prodotto di qualità meno elevata ma ad un prezzo più basso...
"La nostra battaglia non è solo a difesa della nostra economia e delle nostre tradizioni, ma anche a difesa del consumatore. Non se ne può più di formaggi scadenti, tutti uguali, prodotti con materie prime pessime. La nostra è una eccellenza che deve essere tutelata, i nostri prodotti fanno bene alla salute di chi li mangia e vorremmo che questo fosse raccontato. Di latte a basso costo in giro ce n'è tanto, ma è davvero questo su cui oggi vuole puntare il paese? Scommettere sulla qualità significa avere una economia più forte e una salute dei cittadini migliore".
Che cosa può fare il Governo o la regione per sbloccare la situazione?
"Noi chiediamo che venga fissato un prezzo minimo per il litro di latte prodotto in stalla, pari a 0,90 euro. Vogliamo che il Governo si ponga a tutela di questo principio e che stabilisca regole del gioco chiare per tutta la filiera".
Chiedete anche un aiuto economico?
"Ci basterebbe che il Governo la smettesse di fare il Ponzio Pilato della situazione. Le nostre aziende sono gravate da una lunga serie di oneri burocratici, fiscali e previdenziali che rendono ancora più difficoltosa la produzione. E' il momento di metterci mano".
Esistono delle politiche che mitighino gli svantaggi di essere un'isola?
"Non mi faccia ridere. Siamo lasciati a noi stessi. Oggi se un produttore di Asiago vuole portare il suo prodotto in Germania in due ore lo ha fatto. A noi ci vogliono due giorni, con costi elevati. Non ci sono aiuti per avvicinare la Sardegna al continente".
Eppure la regione dovrebbe essere al vostro fianco...
"Ma non lo è. È emblematico che da quando la Sardegna ha ottenuto il riconoscimento di regione a statuto speciale non c'è stato neppure un assessore all'Agricoltura che fosse un pastore. Abbiamo avuto persino un risicoltore, ma mai qualcuno che rappresenti il settore".
Riunire i pastori in cooperative, trasformando il latte in formaggio, può essere la soluzione?
"Il 75% della produzione di latte sardo oggi passa dalla cooperazione. Ma a parte alcuni casi le cooperative si comportano alla stregua degli industriali".
Eppure nella cooperazione a prendere le decisioni sono i soci, come è possibile che si comportino come i trasformatori?
"Perché le cooperative si limitano a trasformare il prodotto, poi lo affidano a reti commerciali esterne. In questo modo non ci si riesce ad affrancare da logiche di mercato speculative che non fanno gli interessi dei pastori. Ci sono cooperative governate da trent'anni dalle stesse persone, che a stento hanno la terza media".
Serve un cambio di mentalità anche da parte dei pastori?
"Assolutamente sì, alcune delle colpe della situazione sono anche nostre. Dobbiamo imparare a fare sistema e a promuovere i nostri prodotti. Ma molti di noi sono persone semplici ed è per questo che è lo Stato che deve tutelarci".
La pastorizia non è solo latte, ma anche lana e carne. Considerando tutte queste fonti di reddito non riuscite comunque ad avere bilanci in attivo?
"Oggi la lana ci viene pagata, quando va bene, 50 centesimi al chilo. Tosare una pecora ne costa 1,70 e ogni animale non arriva al chilo e mezzo. Non parliamo poi della carne di agnello, che nonostante sia un prodotto di altissima qualità ci viene pagata meno di quella dei polli allevati con mangimi nei capannoni".