Piaccia o meno, se ha da farsi si farà. Come qualsiasi altra cosa ricada in materia di legge.
Le molle che hanno portato all'ormai famosa Dir. 128/2009, altrimenti detta "Usi sostenibili", sono peraltro oggettivamente condivisibili. Poggiano i propri pilastri su di una migliore difesa di ambiente e salute. Quindi, chi può schierarsi contro queste nobili finalità senza assumersi al contempo la responsabilità di spiegare alle generazioni future perché il mondo che gli abbiamo lasciato è più scadente rispetto a come noi stessi l'abbiamo trovato? Finalità a parte, però, se guardiamo alle conseguenze che la direttiva avrà sui produttori agricoli, non si può non storcere la bocca in segno di perplessità. Argomenti come il patentino, la corretta taratura delle attrezzature, la formazione di agricoltori, tecnici e anche rivenditori, sono ampiamente condivisibili. Come pure l'approccio sempre più esigente ai processi registrativi delle nuove sostanze attive comporterà un ulteriore innalzamento qualitativo dei parametri tossicologici e ambientali dei prodotti immessi sul mercato. Il beneficio per la salute e l'ecosistema sarà quindi a favore di tutti. E' semmai su chi raccoglierà gli eventuali benefici economici che restano le solite nuvole e le solite polemiche. Di certo, ogni adeguamento genera costi: costi per l'industria, che dovrà investire sempre di più su ogni singolo candidato alla registrazione. Costi in più anche per gli agricoltori, per i tecnici, per i rivenditori. Costi in più pure per gli organismi pubblici di assistenza. Lo sforzo si prevede infatti notevole, sia in termini puramente economici, sia di tempo e risorse umane da allocare a questo processo d'innovazione del settore. La prima domanda che sorge spontanea è quindi se le risorse economiche saranno sufficienti a tutti i livelli, oppure se lungo la catena di trasporto del valore (e dei costi) ci saranno anelli deboli che mal sopporteranno questi oneri suppletivi. L'altra domanda è: cui prodest? A chi giova, come dicevano i Romani? Sempre in termini puramente economici, ovviamente.
A Piacenza, presso l'Università del Sacro Cuore, la Dir. 128/2009 è stata portata al vaglio di un pool di esperti del settore al fine di sviscerarne entrambi i lati della medaglia: i benefici e gli oneri. Intorno al tavolo si sono infatti seduti players di estrazione molto differente: dai responsabili dei servizi fitosanitari regionali ai ricercatori universitari, dall'imprenditoria agricola a quella industriale agrochimica, dall'associazione di produttori alla Grande Distribuzione Organizzata.
In questa sede, la direttiva sull’uso sostenibile dei fitofarmaci e l’agricoltura integrata la si vorrebbe mostrare non tanto come un obbligo, bensì come un'opportunità. La visione dinamica della normativa di settore è infatti il segreto per la sua comprensione. Errore grave sarebbe quindi pensare che con una nuova normativa si possa trovare una soluzione definitiva alle problematiche correnti. La modifica continua degli orizzonti obbliga pertanto ad altrettante modifiche di carattere normativo, atte a rendere l'operatività agricola sempre più funzionale agli scenari in continua evoluzione.
La Direttiva 128/2009: cosa accadrà
Floriano Mazzini, del Servizio Fitosanitario della Regione Emilia-Romagna, riassume in breve ciò che sarà necessario modificare nel breve periodo. Pur non avendo ancora recepita la direttiva, l'Italia ha realizzato un Piano d'Azione Nazionale, del quale ancora non si sa però quale ministero farà da capofila. E' stato istituito anche un tavolo tecnico nazionale, che ha raccolto le informazioni necessarie alla realizzazione del piano d'azione. Un focus particolare è dato alla formazione, sia dell'utilizzatore professionale, sia del distributore e del consulente tecnico. Andranno inoltre adeguate le norme circa i patentini e l'abilitazione alla vendita. Per i consulenti tecnici vi è un aspetto nuovo: andranno definiti i criteri per la loro formazione e per il relativo sistema di certificazione. Si svilupperà in tal senso un sistema di "crediti formativi" per i tecnici "certificati", i quali dovranno aggiornarsi continuamente circa l'evoluzione delle tematiche di loro pertinenza. Infine, si riparla ancora della famigerata "ricetta", la quale mostra luci e ombre e non raccoglie approvazione unanime nel comparto. Un'altra novità della recente normativa è la separazione dei prodotti per l'uso professionale da quelli per il non-professionale. Patentini e rivendite saranno pertanto suddivisi in funzione del tipo dei prodotti. La libera vendita resterebbe cioè solo per i cosiddetti "microdistributori", i quali non potranno però vendere prodotti classificati T, T+ e CMR. Anche i macchinari rientrano nei punti focali della Direttiva: sulle irroratrici, entro il 2016, tutte le attrezzature dovranno essere sottoposte a controlli ufficiali. Poi dovranno essere riviste ogni 5 anni. I controlli funzionali e le tarature sono peraltro già inseriti nei Psr regionali.
Per la difesa integrata si prevede per il 2013 un sistema di monitoraggio utile alla guida delle scelte tecniche. Inoltre, dal 1° di gennaio 2014 tutti gli operatori dovranno utilizzare i criteri operativi (le "linee generali") dell'Ipm, pur senza vincoli sui prodotti. A questo Ipm, definibile "di base", si affiancherà un Ipm avanzato, con orientamento per coltura, dove permangono i limiti sui prodotti in cambio di incentivi (Psr). Entro il 30 giugno 2013, infine, le Regioni dovranno dimostrare che hanno messo a disposizione degli operatori i supporti per operare secondo i criteri Ipm: manuali tecnici e bollettini, appaiono al momento gli strumenti più fattibili. Necessario però in tal senso un servizio di coordinamento dei servizi tecnici e dei manuali, al fine di avere linee guida omogenee per operare correttamente. Il vantaggio di questo adeguamento sarà finalizzato al rafforzamento del sistema di qualità delle produzioni integrate italiane. Circa i costi da sostenere, un'ipotesi può essere l'utilizzo dell'ecotassa per supportare parzialmente questo tipo di attività, compresa la ricerca e sperimentazione, oltre all'assistenza tecnica e la comunicazione.
Le criticità presenti e future
Domenico D'Ascenzo, del Servizio Fitosanitario della regione Abruzzo, non lesina critiche e manifesta in modo molto schietto le proprie apprensioni. Le norme, secondo D'Ascenzo, sono già molto abbondanti e il responsabile abruzzese auspica pertanto il ritorno a una maggiore prevalenza della tecnica sulla normativa. Attualmente, nelle regioni dell'Italia centrale sono già attivi i Psr, che cercano anche di seguire le richieste di Gdo, OP e cooperative. Nonostante ciò, dopo vent'anni di Ipm, tra 2078 e Psr, è difficile quantificare oggettivamente gli effetti di queste pratiche sull'ambiente, come pure non vi è stata un'adeguata valorizzazione dei prezzi per i prodotti agricoli. Una valorizzazione che sui mercati non è stata commisurata agli sforzi sostenuti. Nelle Regioni centrali l'incidenza sulla SAU dell'Ipm non supera il 25% del totale. In Umbria, per esempio, vi erano nel 2008 solo 15 mila ettari in Psr. Inoltre, i centri attivi nella taratura delle attrezzature sono presenti in modo disomogeneo sul territorio. La dimensione aziendale media di certo non aiuta: il 70% delle aziende centro-italiane ha una superficie inferiore ai 5 ettari. Soltanto nelle Marche si scende sotto il 60%. Pertanto, il livello di preparazione dei piccoli agricoltori è spesso inadeguato. In uno scenario così frammentato e complesso, negli ultimi due anni le risorse finanziarie a favore dei servizi tecnici sono state ridotte a lumicino e questo non permette di seguire i piani d'assistenza come si vorrebbe. Fondamentale appare trovare quindi sinergie con altri player, come OP, Coop, Agroindustria e Gdo. Un precedente tentativo di coinvolgimento degli assessorati regionali ha fornito però un feed-back negativo, con assenze preoccupanti dei rappresentanti proprio di salute e ambiente. Le risorse per sostenere le attività previste non si sa quindi dove prenderle e parlare di risorse appare fino al 2014 alquanto utopistico.
Giunto il proprio turno, anche Antonio Guario, del Servizio Fitosanitario della regione Puglia, conferma la presenza di alcune criticità anche nelle regioni meridionali. Le percentuali di ettari Ipm sul totale sono più alte rispetto al Centro, con un 50-70% della superficie viticola da tavola, il 30-50% per agrumi, 20% ulivo, 30-40% fruttiferi, 20% vite vino. Il pomodoro raggiunge ben il 90% e le restanti orticole il 20-30%. Alcune colture sono però ancora fuori dalla Ipm, come pure c'è una carenza organizzativa nell'aggregazione dei produttori. La divulgazione presso gli agricoltori è strategica ma è anche il punto dolente, perché i tecnici son pochi rispetto al numero degli agricoltori. Servono quindi mezzi economici per supportare la produzione e l'invio delle informazioni tecniche. Necessaria, secondo Guario, anche una maggiore integrazione fra pubblico e privato: le rivendite, infatti, rappresentano ancora il 90% delle indicazioni di scelta. Il caso della Tuta absoluta ha però evidenziato i limiti tecnici dei rivenditori, che spesso hanno consigliato prodotti sbagliati. Grave ancora il livello di contraffazione dei prodotti e dell'ignoranza su ciò che può essere venduto oppure no. Anche i centri di taratura sono pochi: 5 in Puglia, Calabria e Sicilia. In Molise, campani e Basilicata vi è un solo centro fisso per Regione. Necessario pertanto estendere l'incarico a centri privati, sempre secondo le regole Enama.
Una tavola rotonda. Rotonda come uno zero
Zero: dagli interventi dei convenuti, infatti, le risorse economiche a quanto pare non ci sono. Come pure appare molto improbabile che agli agricoltori venga riconosciuto un solo cent in più da parte della filiera. Punto. Moderato da Roberto Della Casa, Docente di “Marketing dei Prodotti Agroalimentari dell'Università di Bologna, il dibattito ha visto il confronto fra diversi rappresentanti del settore agroalimentare, come Giampiero Reggidori (Apo Conerpo), Fabio Palo (Finagricola), Michele Scrinzi (Sant'Orsola), Mauro Coatti (per Agrofarma), Patrizia Monge (Lagnasco Group), Fabrizio Piva (Ccpb srl), Roberta De Natale (Auchan-Sma), Maurizio Brasina (Coop) e Pietro di Girolamo (Conad).
La sintesi degli interventi è in fondo semplice: se da un lato si vorrebbe veder premiati i produttori più rigorosi e attenti, dall'altro non pare che questo maggior rigore venga poi riconosciuto a valle con una remunerazione proporzionata. Il vantaggio per chi produce meglio è quindi solo quello di poter continuare a lavorare, mentre i meno professionali potrebbero anche essere costretti prima o poi a smettere, oppure a rivolgersi a quei mercati locali che sfuggono alle logiche della Grande Distribuzione. Non c'è peraltro a livello di consumatore finale una corretta percezione di qualità "maggiore", da pagare quindi equamente. Ormai l'Ipm è divenuta in molte realtà quasi un prerequisito, il quale poi è stato vestito con marchi specifici con cui i prodotti sono andati sul mercato. C'è invece un vantaggio competitivo che non si riesce a comunicare. Non c'è, in altre parole, un sistema capace di comunicare il differenziale di valore. Solo chi parla meglio (o più forte) viene ascoltato. Bisogna infine ammettere come sia la Gdo la vera interfaccia col consumatore, mentre l'agricoltura non ha voce. A titolo d'esempio, la Ferrero SpA spende da sola in comunicazione molto di più di quanto venga speso in comunicazione sull'intera ortofrutta.
I vantaggi di un ambiente migliore e di una salute maggiormente tutelata, in conclusione, sono di tutti. Costi e benefici di questo virtuoso processo sono però ripartiti in modo iniquo, soprattutto a danno della redditività di un'agricoltura nazionale che stenta sempre più a reggere la concorrenza delle aggressive merci estere. Perché la qualità superiore, quando ci si trovi di fronte a un prezzo stracciato, in certe trattative pare all'improvviso contare più ben poco.