Durante il Vinitaly si è tenuto un convegno sul rilancio dei territori marginali attraverso la viticoltura estrema. AgroNotizie ha intervistato un profondo conoscitore del mondo del vino, Diego Tomasi, direttore del Crea viticoltura ed enologia di Conegliano Valdobbiadene.

Professor Tomasi, che cos'è la viticoltura estrema?
“E' quella che viene fatta al di sopra dei 500 metri di altitudine, che si fa sulle piccole isole o sulle estreme pendenze e in generale dove ci sono condizioni ambientali difficili. Può riguardare territori siccitosi, come nel Sud Italia, dove magari piovono 150-200 millilitri di pioggia e dove le temperature estive sono molto alte”.

Perché dovremmo salvaguardare la viticoltura estrema?
“Perché è una viticoltura ricca di valori storici, ambientali, paesaggistici e biologici. Nel corso dei secoli le piante si sono adattate ad uno specifico ambiente estremo, per cui la vite che lí cresce è unica al mondo”.

Quali sarebbero le conseguenze della scomparsa di questa viticoltura?
“Se noi non la valorizziamo perderemo non solo posti di lavoro, ma anche un pezzo della nostra storia, della nostra biodiversità e del nostro paesaggio. Pensiamo alla Costa viola della Calabria, dove ormai gran parte dei declivi sono stati abbandonati. Lo stesso vale per le Cinque terre, o all'area del Sulcis, dove ci sono ancora le viti a piede franco. I vignaioli che lavorano i territori marginali fanno un grande lavoro che richiede impegno e risorse maggiori che in pianura”.

Perché la viticoltura estrema è più costosa?
“I motivi sono diversi. Prima di tutto perché per ragioni pedologiche non permette la meccanizzazione. Dunque se in pianura servono 300 ore uomo per ettaro all'anno in montagna ne servono 1.200-1.300. Inoltre le produzioni da viticoltura estrema sono solitamente più scarse e più rischiose, perché ci sono molti fattori che possono portare alla perdita dell'annata”.

Che fare dunque per proteggere questa viticoltura?
“Dobbiamo valorizzarla, facendola conoscere agli amanti del vino, affinché anche i turisti che visitano questi luoghi, plasmati dai viticoltori, comprino i vini prodotti localmente”.

C'è una debolezza intrinseca in questo tipo di coltivazione?
“Dal momento che è sempre fatta in ambienti davvero estremi spesso abbiamo dei dissesti idrogeologici da controllare continuamente. Bisogna manutenere i muretti a secco e con i cambiamenti climatici le piogge abbondanti e concentrate nel tempo creano grossi problemi di erosione sui pendii. Inoltre sono vigne che persistono sullo stesso appezzamento da secoli e dunque il suolo è impoverito”.

Ci sono dei 'vitigni estremi' che stanno avendo successo sul mercato?
“Tutta la viticoltura dell'Etna, eroica perché si spinge anche a 900-1.000 metri di altitudine, sta avendo un grande successo con il Nerello mascalese. Questo perché abbiamo un vitigno particolarmente vocato per quegli ambienti, dove piove anche solo 200-300 millimetri l'anno. Ma la forza di questo vino è anche nel paesaggio”.

In che senso?
“Le viti crescono su pendii di roccia vulcanica, con un panorama spettacolare. Chi visita questi luoghi se ne innamora e dunque anche il vino, di per sé di ottima qualità, se ne giova”.

Il Mipaaf si sta muovendo per proteggere la viticoltura estrema?
“Il viceministro Oliviero, che ha partecipato al convegno che si è tenuto al Vinitaly, si è impegnato a mettere in campo un progetto triennale per la valorizzazione di queste colture”.

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