La Carta di Milano e il ruolo dei governi per il futuro del pianeta, i 165 milioni di euro al giorno di Italian sounding, le piattaforme logistiche per esportare e il caso virtuoso di Melinda. E, naturalmente, il ruolo della Grande distribuzione organizzata e le accuse – respinte a colpi di cifre – di essere l’anello che maggiormente si avvantaggia fra le diverse componenti della filiera.
Ne parla, in un’intervista ad AgroNotizie, Francesco Pugliese, amministratore delegato e direttore generale di Conad e presidente di Adm (Associazione distribuzione moderna), una rete di 900 retailer e 32mila negozi.

Dottor Pugliese, qual è l’eredità di Expo?
Nutrire il pianeta è stato il tema conduttore di Expo, tema complesso quanto ambizioso. L’eredità non è da meno, soprattutto nell’epoca che stiamo vivendo. O meglio, le eredità, in termini di impegno per il diritto al cibo e per un utilizzo ragionato e equo delle sempre minori risorse naturali. Sprechiamo 1,3 miliardi di tonnellate di cibo ogni anno e peschiamo un terzo in più di ciò che il pescato ha la capacità di riprodursi. Interi Paesi sono alla fame, con una mortalità infantile altissima, perché i cambiamenti climatici indotti dalle attività dell’uomo producono danni enormi all’ambiente e alla biodiversità.
Non solo: è sempre più irrinunciabile un cambiamento della dieta, nell’ottica della salvaguardia della salute e di un minor consumo delle risorse ambientali. Qualche esempio: per produrre 1 kg di carne di bovino servono 15.400 litri di acqua, 8.860 per un 1 kg di tè verde, 1.600 per 1 kg di pane, mentre servono 125 litri per una mela, 1.000 litri per un litro di latte, 110 litri per un bicchiere di vino…
Occorrerà vedere se la Carta di Milano sarà sufficiente a rendere più equa la disponibilità di cibo, a garantire la sicurezza alimentare, a sensibilizzare ogni persona sul futuro del pianeta anche attraverso il cambio della dieta”
.

Che cosa le è piaciuto e che cosa non le è piaciuto di Expo?
“A Expo si sono incontrate razze e culture – non solo alimentari – differenti tra loro. Si sono incontrate e hanno convissuto per mesi. Credo che chi ha frequentato l’Expo lo abbia fatto più per capire e confrontarsi che non per limitarsi a guardare e assaggiare piatti di altri Paesi. E per contribuire, nel suo piccolo, a modelli di vita più rispettosi del valore “sociale” che il cibo incarna, ad ogni latitudine.
Ciò che mi è piaciuto meno nasce dalla consapevolezza che i governi, con i loro investimenti, hanno in mano le chiavi del pianeta. Dipenderà, in prima battuta, dalla loro capacità di amministrare le risorse, economiche e non, e prevedere il futuro se l’Expo potrà rappresentare un punto di svolta nella ricerca di un equilibrio tra chi vive una condizione di malnutrizione (o denutrizione) e chi vive invece consumando in eccesso e sprecando risorse”.


Quali sono i punti di forza e di debolezza dell’agroalimentare made in Italy?
“Il made in Italy agroalimentare è un’eccellenza universale. Quello autentico valorizza il saper fare italiano, la capacità di trasformare e rendere unico al mondo un prodotto dando vita ad una eccellenza. Prendiamo, ad esempio, la pasta: buona parte del grano utilizzato per produrla è di provenienza estera, ma la trasformazione della materia prima in qualità e valore ha radici nella tradizione e nella capacità dei pastai italiani, rendendo questo prodotto straordinariamente unico.
Occorre concentrare attenzione, investimenti, politiche di promozione superando quello che per il made in Italy è un vero e proprio handicap: la frammentazione non solo del mondo agricolo, ma anche delle attività di promozione in cui troppi sono gli attori. Vale a dire i consorzi di tutela, le Camere di commercio, gli enti locali, le Regioni, il ministero, le associazioni di prodotto, l’Unione europea con i suoi progetti…”.


Quali sono le sfide dell’agroalimentare?
“L’agropirateria internazionale, sempre in agguato quando si tratta dell’italianità dei prodotti con maggiore notorietà. Il giro d’affari annuo dell’Italian sounding è stimato in oltre 60 miliardi di euro l’anno – 165 milioni di euro al giorno – il doppio del valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari. Con il risultato che almeno due prodotti su tre commercializzati all’estero si riconducono solo apparentemente al nostro Paese.
Poi, la crescita dei Paesi concorrenti nell’ambito del Mediterraneo; Paesi che per capacità produttive, soluzioni logistiche e di marketing sono più competitivi sui mercati.
Infine, un concorrente temibile, le piattaforme e-commerce, come sta facendo Amazon con la vendita di prodotti alimentari ­– che rappresentano il 30 per cento del mercato mondiale – e per la casa. Vendendo la qualità del made in Italy agroalimentare nel mondo, Amazon si sta appropriando di un valore tipicamente italiano senza alcun controllo e verifica”.


Il made in Italy è sempre più ricercato. Come fare per esportare di più?
“Occorre mettere a regime una struttura commerciale che faccia conoscere l’autentico made in Italy nel mondo e creare piattaforme logistiche capaci di concentrare l’offerta. Non ci si può presentare sul mercato con tantissimi produttori quando i principali competitor arrivano sul mercato ben organizzati in un numero ridotto di produttori associati.
L’unico esempio italiano virtuoso è quello del consorzio Melinda. Parliamo di 4mila famiglie di frutticoltori che coltivano mele e conferiscono, in qualità di soci, ad ognuna delle 16 cooperative a cui sono associate e che costituiscono il consorzio Melinda, a cui hanno demandato tutte le attività successive alla raccolta.
Riconoscersi in un unico interlocutore che opera sul mercato nazionale e su quelli internazionali è un modello da imitare e sostenere, ma è anche un modo perché i produttori possano recuperare marginalità su ciò che producono.
Per indurre il cambiamento occorre favorire l’associazionismo, gli investimenti nelle zone difficili, l’introduzione di sistemi di autocontrollo aziendale e di qualità, aumentare la professionalità degli operatori”.


L’etichettatura è un passaggio fondamentale?
“L’indicazione dello stabilimento tutela il made in Italy agroalimentare e i consumatori, perché è un elemento di trasparenza. Così, chi acquista può avere la certezza che, ad esempio, la mozzarella prodotta in uno stabilimento con sede in Italia è realmente italiana e non di provenienza estera.
Avere reintrodotto in etichetta l’indicazione della sede dello stabilimento di produzione – o di confezionamento – per i prodotti alimentari significa aver ribadito un principio di civiltà contro le potenti lobby internazionali che avevano spinto per l’abolizione dell’obbligo a livello comunitario”.


C’è chi sostiene che accanto al made in Italy esiste anche un Italian Made, un’esperienza italiana che va al di là della provenienza della materia prima.
Condivide questa impostazione?

“L’esperienza è figlia della tipica cultura enogastronomica delle nostre regioni, quando non addirittura di singoli, minuti lembi di territorio italiano. Io non sono per giocare con le parole, perché in ballo c’è davvero tanto. Ci sono il buon nome dell’Italia, la capacità di produzioni uniche, la forza di un marchio che è – ed è bene che continui ad essere – unico, non interpretabile perché già di suo è un messaggio e una garanzia univoci.
Certo è che se il made in Italy è il prodotto finito che circola nel mondo, l’Italian Made è tutto ciò che il prodotto ha di italianità e un valore che deve essere riconosciuto.
Il legame tra prodotti e territori d’origine è sempre stato uno dei punti di maggior presa per conferire ai beni del sistema agroalimentare italiano una precisa riconoscibilità all’estero”.


Spesso la gdo è messa sotto accusa per i rincari dei prezzi. Qual è la vostra difesa?
“Nomisma ha indagato a fondo questo che ormai altro non è se non un luogo comune. Ebbene, del prezzo pagato dai consumatori italiani per beni alimentari ben il 97% serve a ripagare i costi di produzione, mentre la somma di tutti gli utili conseguiti dalle imprese nei diversi anelli della filiera rappresenta solo il 3 per cento. Se ne deduce, insomma, un’incidenza residuale degli utili delle imprese sul livello dei prezzi pagati dal consumatore finale.
È la riduzione dei costi il tema su cui concentrare l’attenzione e da cui può nascere l’opportunità di creare nuovi spazi di reddito e di marginalità per le imprese delle varie fasi della filiera, senza aggravi sul prezzo pagato dai consumatori.
Quello che emerge nel corso degli anni è soprattutto un progressivo spostamento di valore al di fuori della filiera. Se agli inizi del decennio scorso il costo dei beni e servizi realizzati da imprese di altri settori economici assorbiva il 22% della spesa alimentare degli italiani, tale quota è salita al 29% nel triennio 2004-2006 e al 34% nel quadriennio 2008-2011. Questa rilevante progressione appare anzitutto imputabile alla crescita dei costi per utenze, energia, trasporto e logistica, tutte voci di costo direttamente o indirettamente riconducibili a gap infrastrutturali del sistema Paese. Ad esempio, reti di approvvigionamento energetico, sistema infrastrutturale, eccetera”.


È possibile individuare sugli scaffali della gdo aree precise di prodotti Dop e Igp?
“Per i prodotti della nostra linea Sapori&Dintorni certo, anche perché tendiamo a raccoglierli, a creare vere e proprie isole dove il consumatore anticipa in qualche modo il piacere che troverà nel degustarli. Nella gamma di 245 specialità della tradizione enogastronomica regionale italiana, 131 sono i prodotti Dop e Igp con prevalenza di salumi (17), formaggi (31) e ortofrutta (20), mentre altri 15 sono Docg.
Il prodotto riconoscibilmente italiano ha un ottimo appeal anche in epoca di crisi, in Italia come all’estero. Il merito è da attribuire all’autenticità italiana, intesa come quel mix di storia, tradizione e territorio che ha sempre attirato l’attenzione estera per il suo vastissimo patrimonio di culture e di pratiche culinarie, in grado di coniugare l’essenza del territorio italiano con l’innovazione”.


Un burro italiano Dop potrebbe servire?
“Può servire un burro, come un olio o un vino o una delle mille eccellenze che sono il frutto del sapere e di una tradizione che sono uniche al mondo. Rigorosamente italiane. Non riproducibili né contraffabili. Si può contraffare il prodotto finale, ma non il patrimonio di conoscenze che sta a monte e che rende ogni prodotto italiano un unicum. Lei cita il burro: quello Conad è garantito 100% da latte italiano proveniente da allevamenti selezionati ed è frutto dell’impegno che mettiamo nel valorizzare il meglio del territorio. Un impegno che non ha bisogno di una certificazione se, a monte, c’è la valorizzazione di un’intera filiera.
Il cibo comunica e, nel tempo, genera saldi legami con il territorio e le sue molteplici espressioni (cultura, economia, tradizioni…). Se rispettato, questo legame vale, a mio avviso, più di una Dop
”.

Da un’indagine Nielsen-Conad su un panel campione di 9.000 famiglie italiane è emerso che dopo 40 settimane del 2015 sono cresciuti dell’1,5% i consumi per le famiglie che hanno avuto il bonus di 80 euro. Qual è il suo commento?
“Abbiamo atteso un anno e mezzo l’effetto del bonus sui consumi, ma i dati parlano chiaro: il bonus in busta paga ha contribuito alla piccola ripresa dei consumi, della voglia di spendere. Un’indagine di Nielsen evidenzia che nelle prime 40 settimane del 2015 le famiglie che hanno potuto usufruire degli 80 euro hanno speso l’1,5% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Sono quelle che più ne avevano bisogno e che li hanno utilizzati per riprendere a consumi a cui avevano dovuto rinunciare.
Le famiglie che non hanno ricevuto il bonus hanno invece tagliato la spesa di un ulteriore 0,3% e anche il valore della loro spesa è stato più basso 3.539 euro contro 3.600 euro.
Lo scontrino medio è tornato a salire (+3,3% tra le famiglie con il bonus) e gli italiani hanno ripreso a fare una spesa più consistente e meno frequente per non sprecare tempo e risparmiare le spese per andare al supermercato.
È prevedibile, comunque, che non tutte le famiglie che hanno ricevuto il bonus lo abbiano destinato ad acquisti: c’è chi lo ha messo da parte e chi li ha accumulati per fare un acquisto importante”.


Quali sono i progetti di Conad nel breve e medio termine?
“Il nostro piano strategico triennale di sviluppo al 2017 prevede investimenti complessivi per 950 milioni di euro – 366 nell’anno in corso, 308 nel 2016 e 276 nel 2017 – destinati a rinnovare e ampliare la rete di vendita, a orientare l’offerta verso le preferenze dei clienti (prodotti salutistici, pet food, ampliamento del format parafarmacia, distributori di carburanti…), a incrementare la produttività.
Siamo una realtà imprenditoriale in costante evoluzione, che ha dimostrato con i fatti di essere capace di resistere alla crisi, sviluppare nuovi progetti e promuovere innovazione nel rapporto quotidiano con i clienti”.