Il consumo di carne bovina in Italia è di poco superiore a 22 chilogrammi pro capite. Ma oltre 8 chili di questa carne è importata. Insomma non se ne produce abbastanza e questa non è una novità. Un deficit strutturale che ci portiamo dietro da sempre, ma che non impedisce di riservare una quota delle nostre carni all'export sui mercati internazionali. E non solo carne, ma anche bovini vivi, ma in questo caso l'interesse è indirizzato alla nostra genetica. Certo, sono numeri “piccoli”. Poco più di  150mila tonnellate che escono dall'Italia contro più di 700mila che entrano ogni anno. Ma anche quel poco è importante sia per far quadrare i conti delle aziende che riescono  a valorizzare all'estero il proprio prodotto, sia a tonificare il mercato interno, spesso avaro di soddisfazioni economiche. E non è un caso se il numero di allevamenti continua a calare, aumentando il disavanzo della nostra bilancia commerciale.
 
Gli accordi
Un aiuto ai nostri flussi di export nel settore delle carni, questa almeno era la speranza, si sperava potesse arrivare dai recenti accordi commerciali siglati da Bruxelles con alcuni Paesi, in particolare del bacino del Mediterraneo e non solo. Accordi che a quanto pare hanno favorito solo alcuni settori dell'agroalimentare, ad esclusione delle carni. Il motivo è presto spiegato. Questi accordi si limitano a fissare condizioni di carattere commerciale, come dazi doganali agevolati e definizione di  eventuali quote di import. Mai si occupano degli aspetti di natura sanitaria, lasciati alla negoziazione fra le parti. Salvo poi scoprire che il vincolo sanitario viene utilizzato impropriamente come barriera alle importazioni o come strumento per discriminare le importazioni da alcuni Paesi Ue a vantaggio di altri. Un caso emblematico è quello della Turchia, Paese che ha incrementato del 947% le importazioni di carne e che recentemente ha siglato un accordo con la Ue per la riduzione dei dazi doganali. Ma i flussi di import della Turchia hanno privilegiato provenienze diverse da quelle italiane.
 
Uniceb lancia l'allarme
Parte da queste constatazioni l'allarme lanciato  dal presidente di Uniceb (l'unione dei commercianti di cani bovine), Renzo Fossato, che ha indirizzato un appello a Joao Josè Pacheco, direttore generale aggiunto della dg agri della Commissione europea, per segnalare come la necessaria apertura di nuovi mercati debba avvenire tenendo conto di questi aspetti. “Oggi più che mai - afferma Fossato - vi è la necessità che qualsiasi negoziazione con i paesi terzi volta a concludere accordi che permettano l'apertura di scambi commerciali debba obbligatoriamente prevedere il contestuale esame delle condizioni sanitarie richieste dal paese terzo affinché l'avvio dei flussi di esportazione possa effettivamente essere operativo ed uguale per tutti i paesi dell'Unione Europea”.
 
Richiesta condivisa
Alla richiesta di Fossato ha fatto eco quella del presidente di Unicarve, Fabiano Barbisan, che ha accolto con un plauso la proposta di una negoziazione a livello europeo dei futuri certificati sanitari per l'export extra Ue di carni. “Riteniamo - ha affermato Barbisan - sia questa la strada migliore e più veloce per ottenere i documenti in tempi brevi e soprattutto per essere considerati commercialmente alla pari di altri paesi europei (ad esempio la Francia) che, arrivando per primi a negoziare accordi poi, inevitabilmente, condizionano chi arriva secondo.