La specializzazione produttiva, l'utilizzo intensivo dei mezzi di produzione e le tecniche colturali più spinte che caratterizzano l'agricoltura dei nostri tempi comportano fenomeni di declino biologico del suolo.

La produttività di un agroecosistema è strettamente legata alla capacità del terreno di sostenere una coltura agraria in ogni fase del suo ciclo, grazie ad una fertilità chimica, fisica e biologica. Quando le condizioni di vivibilità per le piante coltivate diminuiscono, si può cominciare a parlare di degrado della fertilità, con la difficoltà a reiterare nel tempo una data coltura (o colture botanicamente affini) sullo stesso appezzamento: più propriamente si dice che il terreno è 'stanco'.

Con il termine 'stanchezza del terreno' si indica un quadro sintomatico non ben definito, che riguarda uno squilibrio nei diversi effettori (cioè fattori e condizioni) nel sistema suolo-pianta e che porta ad un lento declino dello sviluppo e della produzione vegetale.
Il fenomeno, di natura completamente differente rispetto alle più probabili anomalie o disordini della sfera radicale, è stato studiato su diverse specie, soprattutto in caso di ristoppio: pensiamo alle arboree (pesco, melo, vite, ciliegio), che purtroppo per molte ragioni di natura tecnico-economica spesso si reimpiantano sugli stessi terreni. Da qui il fatto che la stanchezza è detta anche malattia da reimpianto.

Numerose sono le teorie che hanno tentano di spiegarne l’origine, ma i fattori che determinano la stanchezza del terreno si possono individuare principalmente in:
- alterazione del metabolismo dei residui organici colturali: la semplificazione della biodiversità microbica nel suolo (ad opera della monocultura e in parte anche dell’impiego massivo di biocidi, soprattutto fungicidi e fumiganti) comporta un mancato completamento della umificazione della sostanza organica;

- riduzione degli apporti organici dovuta all’intensivizzazione delle attività produttive: cicli colturali sempre più brevi, specialmente nell’orticoltura protetta, unitamente alla impossibilità di praticare sovesci o letamazioni, non consentono il ripristino del tenore iniziale di sostanza organica, che inesorabilmente scende sotto livelli critici intaccando la sostenibilità ambientale;
perdita della struttura del suolo, che collassa per mancanza di sostanza organica umificata, per eccessi di salinità dovuti ad apporti ingenti di concimi minerali e per la scarsa qualità delle acque irrigue in alcune zone; inoltre al collasso strutturale si accompagna una diminuzione dell’aerazione nel suolo, e ciò comporta l’instaurarsi di processi biochimici in anaerobiosi a carico della sostanza organica con produzione di molecole solubili tossiche alle radici, già in difficoltà per l’ambiente asfittico;

- perdita della struttura del suolo;

- proliferazione di parassiti specifici (Fig.1) delle colture in oggetto, che trovano sempre disponibili nel suolo le loro corti di infezioni: impiegando le stesse sostanze attive nella lotta contro questi parassiti (perlopiù funghi terricoli come Verticillium, Fusarium, Pythium, Rhizoctonia, Phythophthora, Armillaria ecc. o nematodi dei generi Pratylenchus, Tylenchulus ecc.) si induce la resistenza genetica dei patogeni, che così sfornano ceppi più difficili da debellare (nel caso di arboreti da frutto ristoppiati, o carciofaie poliennali, la stanchezza del terreno è stata spesso attribuita a cause di natura esclusivamente parassitaria).
Secondo accreditate scuole di pensiero (Zucconi in primis) la stanchezza sarebbe causata da altri effettori che, provocando un generale indebolimento della pianta, la renderebbero più suscettibile agli attacchi dei parassiti;


Fig.1 Tracheomicosi su asparago da Fusarium oxysporum f.sp. asparagi
(Fonte www.inra.fr)

- produzione di fitotossine: l'escrezione radicale di cataboliti secondari crea condizioni ostili per gli apparati radicali di giovani piante reimpiantate nello stesso terreno, inibendone l'accrescimento: questo fenomeno va sotto il nome di allelopatia e i messaggi chimici rilasciati dalle piante sono molecole organiche non nutrizionali, il più delle volte fitotossiche (allelosostanze).
Le allelopatie sono meccanismi tramite i quali una specie tenta di inibire lo sviluppo di individui conspecifici o eterospecifici, limitandone la diffusione spaziale. Il senso sta nella imposizione di una organizzazione strutturale, nella individuazione di una gerarchia spaziale e temporale delle piante all’interno di una comunità vegetale, tanto in ecosistemi naturali quanto negli agroecosistemi. Una forma interessante di allelopatia è l’autotossicità, tipica di alcune specie coltivate come erba medica, asparago, grano saraceno, veccia, trifoglio rosso. Ma l'allelopatia non si ferma ad un esclusivo antagonismo radicale, si esprime altresì nella parte areica: alcune specie sintetizzano canfore, composti organici volatili che tengono a debita distanza l'avanzare di altre specie nella competizione per il suolo in ecosistemi naturali quali le brughiere.

Il peperone è tra le ortive più sensibili alla stanchezza del terreno, per l’escrezione radicale di  sostanze tossiche e loro accumulo nel terreno a causa della lenta demolizione ad opera della  microflora tellurica. Inoltre, per problemi comuni legati alla comparsa di tracheofusariosi si sconsiglia il ritorno della coltura o di altre Solanacee sullo stesso appezzamento prima di tre-quattro anni.

E’ noto che le radici di pesco sintetizzano una miscela di fitotossine tra cui amigdalina e prunasina (Fig.2), glucosidi cianogenetici che nella rizosfera si idrolizzano a benzaldeide e acido cianidrico, che inibisce la respirazione cellulare.

Analogo discorso riguarda il melo con la sintesi radicale di florizina.

 Fig.2 Allelosostanze responsabili della stanchezza del terreno
in caso di reimpianto di pescheti

In definitiva, la semplificazione degli ecosistemi attraverso la riduzione della biodiversità (sia in termini di specie vegetali coltivate che di biocenosi) rappresenta la principale origine dei fenomeni di stanchezza del terreno. Tecniche agricole quali la rotazione colturale, impiegando possibilmente specie botanicamente lontane, contribuiscono a ripristinare un minimo di biodiversità nei terreni coltivati.

Gli apporti di sostanza organica tramite letamazioni, sovesci con biofumigazioni, addizione di compost ecc., sebbene talora problematici in fatto di applicabilità, risultano spesso necessari perché introducono antagonisti naturali, migliorano la struttura del suolo e in generale le condizioni di ospitalità delle piante.
L'impiego di microrganismi antagonisti come Trichoderma spp., l'apporto di terreno alloctono nelle buche di impianto degli astoni oppure l’utilizzo di portinnesti resistenti sono pratiche che danno effetti positivi solo in determinati rari casi, e comunque non risolvono il problema se non nel breve periodo.

A cura di Cosimo Chiantese - socio di Antesia

 

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