"Primum vivere, deinde philosophari", era il richiamo alla concretezza degli antichi romani. In queste ultime settimane prima del voto, il mondo agricolo sta avanzando il proprio pacchetto di proposte, vario e articolato, per rilanciare un settore che alla produzione vale oltre 60 miliardi di euro, ma che agganciato alla trasformazione alimentare rappresenta una fetta dell'economia italiana pari a 575 miliardi, euro più, euro meno.
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Non abbiamo dunque molto da suggerire a chi, occupandosi del mestiere, è molto più esperto di noi. Né abbiamo la presunzione di cimentarci in una classifica delle azioni da mettere in piedi o, ancora, ci sentiamo di dover commentare i programmi che i partiti dedicano all'agricoltura.
Le prossime elezioni disegnano uno spartiacque innanzitutto per il formato "mignon" del Parlamento, dopo la riforma votata che porterà alla riduzione dei deputati (da 630 a quattrocento) e dei senatori (da 315 a duecento). Riteniamo che siano comunque un numero sufficiente per rappresentare le istanze dei cittadini (abbiamo una popolazione in calo) e che il prossimo passo potrebbe andare nella direzione di una riduzione degli stipendi dei parlamentari, senza che ciò possa costituire un grave danno alla democrazia.
Oggi più che mai l'agricoltura e l'alimentare impongono politiche attente. Vi sono contingenze più urgenti e azioni a medio e lungo termine da attuare. Con questo non dovremo immaginare soluzioni da bacchetta magica, in grado di dare slancio ai mercati (peraltro tutti abbastanza dinamici), far rifiorire le produzioni o ridurre i costi di produzione, ma di fronte all'esplosione dei costi energetici non è pensabile attendere ulteriormente, quando vi sono imprese agricole che hanno visto triplicare o quadruplicare (a seconda dei contratti di fornitura in essere) la propria bolletta.
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Allo stesso tempo, non ci si può accontentare di qualche bando con i fondi del Pnrr per rilanciare il fotovoltaico, senza prevedere che le imprese agricole possano vendere a prezzi remunerativi l'energia che non consumano nella propria gestione ordinaria. Se non assicuriamo la possibilità alle imprese agricole (e, aggiungerei, a tutti i proprietari di immobili rurali) di poter vendere energia con possibilità di rientro dei costi di realizzazione dell'impianto e di adeguato riconoscimento economico, come possiamo pensare che le aree rurali sfruttino appieno il loro potenziale?
Quella di installare pannelli fotovoltaici per la produzione di energia sui tetti di ogni fabbricato rurale era una politica di estrema concretezza, finalizzata anche al recupero delle cascine e degli edifici nelle campagne italiane, rilanciata dall'allora presidente onorario dell'Accademia dei Georgofili, professor Franco Scaramuzzi, lungimirante e pragmatico.
Si parla di transizione ecologica, ma bisogna avere le idee chiare - magari con politiche uniformi su scala europea, visto il tema - per definire un piano di crescita delle energie rinnovabili. Allo stesso tempo, se la pandemia, il conflitto in Ucraina e speculazioni varie in atto hanno modificato lo scenario globale, non si può pensare di non sostenere la ricerca e lo sviluppo con determinazione (e possibilità di sperimentazione in laboratorio e in campo) e continuare a predicare irrazionalmente gli obiettivi del Green Deal, invocando il taglio dell'uso di mezzi tecnici. Il 2030, obiettivo cronologico per una riduzione del 50% degli agrofarmaci, è dietro l'angolo. Fra pochi mesi saremo nel 2023.
Il nuovo Governo dovrà avere ben chiaro il quadro di intervento, tanto in sede europea, dove ci auguriamo possa portare un contributo degno del prestigio dell'agricoltura italiana, fra le prime in Europa per valore aggiunto, quanto a livello nazionale, dove dovrà rafforzare il dialogo con le regioni per cercare di rendere più efficienti gli strumenti finanziari a sostegno degli agricoltori.
Fra le emergenze non si dimentichino i cambiamenti climatici, che meritano essenzialmente due tipi di azione: interventi di sostegno immediato per le perdite in campo e politiche mirate all'approvvigionamento a prezzi calmierati di mais, cereali e semi oleosi, strumentali agli allevamenti zootecnici. In Francia si calcola per l'acquisto di mangimi un maggiore esborso per gli allevatori di almeno 2 miliardi di euro rispetto allo scorso anno, prepariamoci a subìre un contraccolpo analogo anche in Italia.
Restano da valutare, anche in ottica del potenziamento dei fondi di assistenza mutualistica nella Riforma della Politica Agricola Comune (Pac) che entrerà in vigore dal prossimo gennaio, specifiche azioni in grado di dare ristoro immediato alla filiera, tenuto conto che le dichiarazioni emergenziali e gli stati di calamità, di per sé già difficili da acclarare, non portano grandi risorse.
L'emergenza climatica impone azioni di medio e lungo termine, da attuare in ogni caso con la massima celerità, così da potenziare gli invasi, costruire bacini di ritenzione idrica, rendere più efficiente la rete ma anche, andando oltre il livello infrastrutturale, promuovendo soluzioni tecnologiche innovative per migliorare anche in campo la gestione della risorsa acqua. Se è vero, come è stato denunciato in piena emergenza siccità, che il cuneo salino sta risalendo inesorabilmente la foce del Po, non è possibile non adottare soluzioni efficaci a contrasto. Perché delle due, l'una: o la risalita del cuneo salino è reale, allora diventa impellente agire, oppure è una bufala o una notizia gonfiata.
Da più parti è stato sollevato il problema dell'emergenza cinghiali: 2 milioni di ungulati pericolosi per la salute pubblica (a partire dalla peste suina, che rischia di ingessare l'export dei salumi italiani), ma anche per la circolazione stradale e la sicurezza nelle campagne e nelle città. Lo stesso dicasi per gli altri animali nocivi. La mia provenienza non può non farmi puntare il dito contro le nutrie, che danneggiano le colture in campo e minacciano la sicurezza idraulica degli argini, la circolazione lungo le strade, col pericolo di diffondere patologie negli allevamenti (il caso del pipistrello a Wuhan ricorda qualcosa in merito al rischio che i virus possano sfuggire di mano?).
Un'altra riflessione. Il Censimento generale dell'Agricoltura ci ha consegnato l'immagine di un'agricoltura italiana produttiva e proiettata verso una ristrutturazione: meno aziende, ma più efficienti, più grandi e meglio strutturate, anche se sullo sfondo rimangono i problemi di manodopera (sui quali torniamo).
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Di cosa potrebbero aver bisogno le imprese agricole di domani? Senza dubbio di tecnologia, innovazione, ma allo stesso tempo anche di formazione, per utilizzare al meglio le nuove tecnologie e le soluzioni digitali è essenziale conoscerne il funzionamento, le potenzialità, gli orizzonti.
Basta, quindi, con la ritrosìa, la paura, gli equilibrismi, i divieti nei confronti della sperimentazione anche in campo, delle Tecnologie di Evoluzione Assistita (Tea), ma anche delle tecnologie legate all'agricoltura di precisione, la sensoristica, alla raccolta dei dati. Sarà poi la competenza umana a decidere come applicarla, ma per farlo serve un'adeguata e professionale preparazione. Basterà la riforma degli istituti tecnici superiori? Serviranno competenze universitarie? Corsi di formazione dedicati alle diverse categorie produttive? Probabilmente ogni percorso potrà dare risultati concreti, starà alla discrezione di ciascun operatore individuare quelli più adatti, ma deve essere chiaro tanto al mondo agricolo quanto alla politica: il comparto richiede professionisti, non avventurieri. Conoscere i dati, interpretarli, comunicarli, costruirci un percorso produttivo strutturato: il futuro passa da qui, non dal lavoro eterno nei campi, in cui la manualità non lascia spazio alle strategie e alla professionalità nell'attuarle.
La manodopera, dicevamo: per quale motivo c'è carenza? È effettivamente così? È una questione contingente legata alla coda della pandemia o vi sono altri ostacoli che frenano l'occupazione? La Riforma della Pac, con l'introduzione della condizionalità sociale, sarà sufficiente a garantire occupazione e soddisfazione fra i lavoratori? È una questione economica (dipendenti e collaboratori vogliono o devono essere pagati di più) o di tipo culturale e sociale (nessuno ha più voglia di fare lavori manuali e si è connaturato fra gli aspiranti lavorativi il diritto al weekend libero, incompatibile con la raccolta nei campi, l'attività agricola e zootecnica nel suo complesso)? E la tecnologia riuscirà a sopperire alla carenza di manodopera?
Allarghiamo infine gli orizzonti alla dimensione dell'alimentare. Se ne parla da anni, manca forse il coraggio perché le contrapposizioni all'interno della filiera - almeno fino a qualche tempo fa, oggi con la crisi energetica e dei consumi bisogna vedere - erano marcate e gli industriali volevano continuare a sentirsi parte della grande industria.
Tuttavia potrebbe essere propizio il momento, alla luce degli sforzi del nostro export agroalimentare (proiettato a raggiungere i 60 miliardi di euro nel 2022), per creare una task force che coinvolga i ministeri delle Politiche Agricole, dell'Economia, della Salute e degli Esteri per definire politiche di filiera uniformi e coordinate, finalizzate a sostenere e incrementare le produzioni e ridurre il tasso di dipendenza dall'estero, valorizzare la qualità del made in Italy, mettere a punto strategie in grado di promuovere l'alimentare italiano nel mondo rispettandone la qualità, l'integrità e potenziando gli scambi commerciali. Servono, necessariamente, accordi bilaterali o multilaterali, sotto l'ombrello dell'Unione Europea, ma anche come Paese Italia.