In Sardegna continuano senza sosta gli abbattimenti di suini incustoditi, di cui si ignora chi sia il proprietario e che vagano nei pascoli senza controllo sanitario.

Il perché di questi abbattimenti trova spiegazione nella lotta senza quartiere che in Sardegna si sta combattendo contro la peste suina africana, il cui virus trova rifugio negli animali "rinselvatichiti", che si aggirano nelle campagne.

Una misura che ha trovato molti ostacoli e suscitato molte polemiche, ma indispensabile per dare una svolta ai piani di eradicazione che in 40 anni non hanno portato a nessun risultato.


Calano i focolai

La situazione epidemiologica della peste suina africana in Sardegna, grazie anche a questi interventi, sta dando buoni risultati e il numero di focolai è passato dai 223 del triennio 2012-2014, ai soli 56 di quello successivo, dal 2015 al 2017.

Forte di questi numeri il presidente della Regione Sardegna, Francesco Pigliaru, ha incontrato il commissario europeo alla Salute, Vytenis Andriukaitis, per invitare le autorità sanitarie della Ue a visitare la Sardegna per prendere atto del nuovo corso dei programmi di eradicazione.

Un passaggio decisivo per aprire le produzioni suinicole della Sardegna ai mercati esteri.

 

Tenere alta la guardia

Se le cose vanno meglio in Sardegna, nel resto d'Italia non si può abbassare la guardia nei confronti di questa patologia infettiva (descritta in modo approfondito su AgroNotizie) che dalla Georgia si è diffusa in alcuni paesi dell'Europa orientale per giungere sino in Ungheria.

Una "minaccia da Est" che va tenuta sotto controllo con una sorveglianza passiva da parte degli allevatori, con una puntuale verifica dei mezzi in entrata in allevamento e degli animali di nuova introduzione.

Il tutto accompagnato da severe norme di igiene e disinfezione di locali e strumenti per l'allevamento.

 

I suggerimenti degli esperti

E' questo il suggerimento che viene dagli esperti riuniti in questi giorni nei pressi di Mantova, nella sede della Associazione mantovana allevatori (Ama), per affrontare il tema della biosicurezza nella prevenzione della peste suina africana.

L'incontro, organizzato dal Gruppo veterinario suinicolo mantovano (Gvs) in collaborazione con la stessa Ama, ha visto la partecipazione di Silvia Bellini, responsabile del Centro di sorveglianza epidemiologica dell'Istituto zooprofilattico della Lombardia e dell'Emilia Romagna (Izsler) di Brescia, che figura fra gli esperti della Commissione europea.

"Il genotipo 2 della peste suina africana (diverso dal genotipo 1 diffuso in Sardegna) - ha precisato Bellini - è partito nel 2007 dalla Georgia e in pochi anni si è spostato in Armenia, Russia, Azerbaijan (2008), Bielorussia (2013), Lituania, Estonia, Lettonia (2014), Moldavia (2016), Romania e Polonia (2017), fino all'Ungheria (2018).

Ricordiamo che il 30% della produzione suinicola europea è concentrata nei paesi del nord Europa
".


Le 'misure' della biosicurezza

Un ruolo chiave per frenare l'avanzare del virus della peste suina africana è nella adozione dei principi di biosicurezza.

"In Italia il ministero della Salute ha predisposto un sistema integrato di valutazione della biosicurezza a valenza nazionale ed internazionale", ha specificato Giovanni Loris Alborali, dell'Izsler.

"I nostri allevamenti - ha ricordato Alborali - hanno un livello di biosicurezza interna in linea con gli altri paesi europei, ma scarso se riferito alla biosicurezza esterna. I nostri principali fattori di rischio sono infatti individuabili nei trasporti, nel numero di visite in azienda effettuate dai trasportatori, nella tipologia di disinfezione dei mezzi. In tutto questo gli animali vivi rappresentano il principale fattore di rischio".


Il ruolo degli allevatori

"I primi controllori - ha concluso Alborali - devono essere gli allevatori, a cui spetta verificare il grado di pulizia dei mezzi che entrano in allevamento e il sistema con cui vengono disinfettati. E devono rammentare che la biosicurezza costa molto poco".

Motivo in più per attuare ogni accorgimento atto a evitare che la peste suina africana possa entrare in allevamento, compromettendo non solo la propria azienda, ma un intero sistema agroalimentare che ruota attorno alle carni suine, materia prima di insaccati e salumi che figurano fra i vanti del made in Italy.