Scappati da voliere o liberati intenzionalmente da padroni dal cuore d'oro (o stufi del loro ripetere ogni frase), questi animali si sono moltiplicati e hanno dato vita a colonie numerose. Per ora limitate ai centri urbani, questi chiassosi volatili stanno compiendo incursioni anche nelle zone agricole apportando danni non indifferenti alle colture.
"In Italia abbiamo soprattutto il parrocchetto dal collare e il parrocchetto monaco, che ha una diffusione consistente a Roma. Sono uccelli che per ora in città trovano riparo e cibo, ma con l'aumento degli individui è inevitabile che si sposteranno anche al di fuori dei confini urbani", spiega ad AgroNotizie Mattia Menchetti, ricercatore presso l'Institute of evolutionary biology (Csic-Upf) di Barcellona.
"E' difficile valutare l'impatto dei pappagalli a livello agricolo. Abbiamo delle segnalazioni, singoli casi, ma non uno studio completo. Ci sono delle ricerche in corso anche perché in assenza di predatori che ne controllino efficacemente il numero, la popolazione è destinata ad aumentare. Come già sta accadendo in Spagna".
Il parrocchetto monaco e dal collare
Il parrocchetto dal collare (Psittacula krameri) è sicuramente la specie che meglio si è adattata agli areali italiani, installando colonie in tutta la penisola. I primi danni registrati sulle colture agricole risalgono al 2000, quando si cibarono di semi di girasole presso la Tenuta dell'Acquafredda, a Roma. I parrocchetti sono infatti attratti dai semi oleaginosi dei girasoli, ma non solo. Apprezzano anche mais, la soia, alberi da frutto (mele, ciliegie, melagrane, nespole) e orticole (dal pomodoro ai piselli, fino ai peperoni).Questo uccello nidifica da maggio ad agosto e crea colonie che possono raggiungere senza difficoltà le mille unità (a Roma ci sarebbero circa 10mila esemplari) che si riuniscono su grandi alberi. La femmina depone fino a sei uova che cova per circa ventiquattro giorni, i piccoli vengono alimentati al nido e si involano dopo circa sei-sette settimane.
Parrocchetti dal collare che si cibano di frumento trebbiato
(Fonte foto: Wikipedia)
Il parrocchetto monaco (Myiopsitta monachus) conta una popolazione meno numerosa ma altrettanto diffusa su tutta la superficie nazionale. La dieta è simile a quella del parrocchetto dal collare, ma quello monaco si alimenta spesso da terra. Per questo i danni maggiori sono arrecati alle coltivazioni orticole, anche se una colonia è in grado di alleggerire un albero da frutto in poco tempo. Inoltre si sono osservati dei casi in cui questi uccelli hanno strappato tralci di vite per la costruzione dei nidi.
In condizioni favorevoli la femmina può portare a termine anche due covate per stagione. I parrocchetti monaco costruiscono grandi nidi comunitari, in corrispondenza della ramificazione dei tronchi, dotati di tunnel interni e camere dove ogni coppia (fino a dieci per nido) depone le sue uova, da cinque a otto, che vengono covate per una ventina di giorni.
Non solo parrocchetti, attenzione alle (mini)lepri
Se i pappagalli sono una specie esotica a cui gli agricoltori non sono abituati, le lepri rappresentano invece una 'vecchia conoscenza'. Presenti in quasi tutta l'Italia (ad eccezione di Sardegna e Sicilia), questi mammiferi hanno subito un drastico calo demografico nel secolo scorso, mentre oggi le popolazioni sono tornate a crescere, rappresentando una buona notizia per la biodiversità, ma anche fonte di preoccupazione per gli agricoltori.Anche perché oltre alla lepre europea (Lepus europaeus) si sta diffondendo in tutta Italia la minilepre (Sylvilagus floridanus), un mammifero originario del Nord America, dalle dimensioni più contenute (visto che a stento può arrivare a pesare due chili) ma che ha gusti molto simili a quelli della sorella europea.
(Fonte foto: Identificazione e prevenzione dei danni da lepre, a cura di Valter Trocchi)
Solitamente lepri e minilepri non causano danni consistenti alle colture, ma in caso di aree con elevata densità (ad esempio in Veneto e Friuli) oppure in concomitanza di andamenti climatici anomali (ad esempio prolungata siccità), le lepri possono cibarsi di alcune colture. E talvolta causano danni ingenti quando attaccano vivai e giovani impianti arborei, come quelli di kiwi o vite.
Le giovani piante che finiscono sotto i denti delle lepri mostrano segni di rasura corticale, brucatura delle gemme e di scortecciamento che possono causare la morte degli alberi, anche per danni secondari (azione di microrganismi). I danni provocati alle colture annuali sono meno frequenti e consistenti, anche perché una lepre adulta ingerisce in media circa 150 grammi di sostanza secca al giorno (la minilepre molto meno).
Un esemplare di lepre
(Fonte foto: S. Zanini)
Il modo migliore per proteggere le colture è applicando una rete leggera, con maglia esagonale, che deve essere interrata per almeno dieci centimetri e deve essere alta almeno un metro. E' anche possibile utilizzare una protezione elettrica, composta da fili elettrificati posti a dieci, ventisette e cinquanta centimetri dal suolo. Rappresentano una soluzione più economica della prima, ma tuttavia richiedono una manutenzione più complessa per preservarne l'efficacia.
Per i giovani impianti è possibile proteggere i tronchi degli alberi con delle protezioni individuali. Delle guaine, in plastica o legno, che avvolgono il tronco e non permettono ai roditori di intaccarlo. Come per gli ungulati, è possibile anche utilizzare sostanze repellenti da spargere sui tronchi durante il periodo di riposo vegetativo, in modo da scoraggiare la lepre dal cibarsene. Non sono invece consigliabili applicazioni in altri periodi in quanto le sostanze repellenti possono avere effetti fitotossici e inoltre non proteggono i tessuti cresciuti dopo l'applicazione.
Infine è anche possibile 'offrire' alla lepre alimenti che la dissuadano dal cibarsi delle colture. E' dunque possibile lasciare in una posizione vantaggiosa resti di potature o frutta e verdura di scarto che rappresentano un facile pasto per questo animale.