L'impatto della fauna selvatica sull'agricoltura è una realtà ben nota agli agricoltori italiani. Specie autoctone come storni, corvi e piccioni rappresentano da tempo una minaccia per le colture e il problema è ulteriormente aggravato dalla presenza di specie invasive, come i parrocchetti. L'introduzione e la diffusione di questi uccelli alloctoni ha modificato il panorama della gestione faunistica, portando nuove sfide nella convivenza tra agricoltura e volatili.
"Da un lato abbiamo le specie autoctone, come lo storno, il piccione, i corvidi (soprattutto la cornacchia grigia), ma anche uccelli acquatici come il cormorano, che in certi contesti possono causare danni importanti all'agricoltura. Parallelamente, negli ultimi anni si è registrato un aumento degli impatti dovuti alle specie alloctone, come i parrocchetti, in particolare il parrocchetto dal collare e il parrocchetto monaco", spiega Andrea Monaco, ricercatore dell'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), che da anni studia le specie selvatiche e la convivenza con il settore agricolo.
Andrea Monaco, qual è la situazione attuale dei parrocchetti in Italia?
"Il parrocchetto dal collare e il parrocchetto monaco sono presenti in Italia ormai da diversi decenni. Le loro popolazioni sono in crescita, con nidificazioni documentate in quasi tutte le regioni. Questi uccelli, originariamente confinati alle aree urbane, si stanno diffondendo anche nelle campagne, con conseguenze potenzialmente significative per l'agricoltura. La situazione non è ancora al livello di allarme, ma gli agricoltori cominciano a percepire i danni".
Come si spiega la rapidità della diffusione dei parrocchetti?
"Il fenomeno che osserviamo è noto come lag phase, caratteristico delle specie aliene invasive. Inizialmente la loro presenza è silenziosa e sottovalutata. Solo dopo un lungo periodo, che può durare decenni, le popolazioni esplodono, diventando difficili da controllare. Questo è esattamente ciò che è accaduto con i parrocchetti in Italia: per anni la loro presenza è stata ritenuta marginale, ma ora ci troviamo di fronte a un incremento significativo delle popolazioni".
Esistono dati precisi sulla diffusione e sui danni causati dai parrocchetti?
"I dati disponibili sono ancora parziali e frammentari. L'ultima rilevazione su base nazionale risale a circa dieci anni fa e già allora i parrocchetti erano presenti in diciassette regioni su venti. Oggi possiamo ipotizzare che le popolazioni siano cresciute in modo significativo. Anche se non esistono stime dettagliate sul numero di individui, si parla di almeno una decina di migliaia di coppie nidificanti. Tuttavia, i danni agli agricoltori non sono ancora sistematicamente registrati nei bilanci regionali".
Quali contromisure possono adottare gli agricoltori per limitare i danni causati dai parrocchetti, come da altre specie di volatili?
"Sfortunatamente non ci sono molti mezzi a disposizione. Si possono usare i cannoncini ad aria compressa, altre forme di dissuasione visiva, le reti, oppure i repellenti, ma l'efficacia non è elevata. Gli strumenti più efficaci sono gli abbattimenti gestiti dalle regioni, che tuttavia sono costosi e hanno una validità limitata nel tempo".
Contro i parrocchetti ci sono degli interventi specifici?
"In alcuni casi si può intervenire sui nidi. Ad esempio, i nidi dei parrocchetti monaci sono più facili da distruggere perché costruiti come grandi strutture collettive sugli alberi, mentre i parrocchetti dal collare nidificano in cavità naturali o artificiali, rendendo l'intervento più complicato. Tuttavia, sarebbe necessario agire tempestivamente per prevenire il consolidamento di queste popolazioni. C'è da dire che la percezione pubblica gioca a sfavore: spesso questi uccelli sono considerati 'carini e colorati', questo rende difficile convincere i cittadini dell'urgenza di agire".
Ci sono normative specifiche che regolano il controllo delle specie aliene invasive, come i parrocchetti?
"La normativa attuale prevede l'adozione, da parte delle regioni, di Piani di controllo ed eradicazione che devono essere approvati e gestiti in collaborazione con enti locali e figure specializzate. Recentemente, la normativa sulla fauna selvatica è stata modificata per ampliare le possibilità di intervento, includendo anche la protezione della biodiversità e il contenimento degli impatti in contesti urbani. Tuttavia, i parrocchetti non rientrano ancora nell'elenco delle specie aliene invasive di rilevanza unionale, per cui gli obblighi di intervento sono meno stringenti come per altre specie, come lo scoiattolo grigio".
Qual è la situazione attuale per quanto riguarda la raccolta dei dati sui danni causati dagli uccelli selvatici, come gli storni o i parrocchetti?
"Attualmente, se si cercano su scala nazionale i dati sui danni causati dallo storno, che è probabilmente la specie autoctona più dannosa in Italia, non si trovano perché non esiste una raccolta sistematica. Questo è un problema perché questi uccelli causano impatti economici significativi, che gravano sulle casse pubbliche, e la mancanza di dati di sintesi rende difficile affrontare il problema in modo efficace".
Perché per gli agricoltori è così difficile ottenere un risarcimento per i danni causati dagli uccelli selvatici?
"La fauna selvatica è considerata patrimonio indisponibile dello Stato e dunque i danni da essa provocati sono indennizzati dal pubblico. Gli indennizzi tuttavia sono spesso parziali, potremmo definirli dei ristori, e inoltre i tempi per ottenerli possono essere molto lunghi".
Quali sono le regioni più attive nella gestione del problema?
"Le regioni che hanno mostrato maggiore attivismo sono Toscana, Emilia Romagna e Lombardia. Negli ultimi vent'anni, in queste aree, i danni causati da alcune specie, come storni, corvidi e piccioni, sono diminuiti. Un ruolo è sicuramente stato giocato dall'incremento delle attività di contenimento e prevenzione. Ad esempio, dieci o quindici anni fa, l'Emilia Romagna registrava circa 250mila euro di danni da piccioni, oggi questa cifra è dimezzata. Allo stesso modo, i danni da storno sono scesi da 250mila euro a circa 30-40mila euro all'anno. In Toscana, i danni da storno sono passati da oltre 100mila euro a circa 15-20mila euro nello stesso periodo".
Le attività di contenimento stanno quindi funzionando?
"Sembra di sì. Siamo passati da una situazione in cui il problema era poco conosciuto e gestito, a una dove prevenzione e controlli delle popolazioni di uccelli sono diventati parte della routine. Questo ha portato a una riduzione dei danni e quindi anche degli esborsi per gli indennizzi. Tuttavia, bisogna considerare che alcune criticità permangono. Alcuni agricoltori, per esempio, hanno smesso di richiedere i risarcimenti, scoraggiati dalla burocrazia".
Ci sono dati disponibili sui danni causati dai cormorani e da altri uccelli ittiofagi?
"Sì, ma la situazione varia da regione a regione. In Veneto, i danni causati dai cormorani si aggirano intorno ai 50-60mila euro all'anno, mentre in Emilia Romagna si parla di circa 100mila euro. Questi importi, tuttavia, sono diminuiti rispetto agli anni passati, segno che le misure di contenimento stanno avendo un impatto positivo anche in questo settore".
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