Per il settore lattiero caseario sembrano passati anni luce dalla crisi che dal 2014 al primo semestre del 2016 hanno messo in ginocchio gli allevamenti di tutto il pianeta.
Logico che sorga spontanea una domanda: fino a quando durerà?
Una risposta da Nostradamus anche per gli esperti di Clal.it, il portale visitato ormai da 211 paesi del mondo, che non si sbilanciano e invitano a consultare frequentemente i dati relativi alle produzioni, alle esportazioni, alle tendenze internazionali per interpretare in anticipo le tendenze.
Perché nulla è più vero di un concetto lapalissiano nella sua semplicità: il futuro del mercato del latte dipenderà molto dalle produzioni a livello europeo e mondiale.
Al momento lo scenario sembra essere positivo e vi sono segnali di tranquillità dei listini almeno fino alla fine dell’anno e probabilmente anche nel primo trimestre del 2018. Tuttavia, sarà fondamentale non eccedere nella spinta produttiva, alla luce di una domanda mondiale che è in crescita, ma su ritmi ancora deboli. Un incremento massiccio potrebbe ingolfare gli scambi internazionali e ripercuotersi sulle filiere, colpendo duro gli allevatori, i quali – ancora convalescenti - non possono permettersi una crisi ravvicinata.
Quella di non lasciarsi prendere la mano è una soluzione forse più facile a dirsi che non a farsi, dal momento che in alcuni paesi, fra i quali l’Italia, le consegne di latte sono in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: fra gennaio e maggio di quest’anno l’Italia ha prodotto 5.193.000 tonnellate di latte, il 2% in più su base tendenziale. A preoccupare gli osservatori di Clal.it, però, sono le progressioni fra marzo e maggio (le ultime disponibili), che segnalano un aumento produttivo su base tendenziale del 2,93% a marzo, del 3,52% ad aprile e del 4,41% a maggio.
Inoltre, gli attuali prezzi di mercato potrebbero spingere i produttori ad accelerare e a incrementare la produzione. Potrebbe essere difficile trattenersi (ma sarebbe un errore non farlo) con quell’aura di fiducia che emanano i listini. Le quotazioni del latte spot a Verona e a Lodi dello scorso 31 luglio hanno segnato 43 €/100 kg su entrambe le piazze, rispettivamente +26,47% e +28,36% sullo stesso periodo del 2016.
Una tendenza a incrementare le consegne potrebbe sbilanciare un mercato che ha trovato un proprio equilibrio produttivo tarandosi su una produzione di circa il 70% rispetto al proprio tasso di autoapprovvigionamento. Un’eventuale produzione superiore rischierebbe, in assenza di maggiori esportazioni, di far saltare il banco e di mettere in crisi il mercato, magari incentivando la speculazione da parte dell’industria di trasformazione.
In effetti, qualora l’intera produzione lattiera italiana non trovasse adeguata destinazione presso i centri cooperativi e industriali di trasformazione (se, come sembra, qualche impianto di lavorazione chiudesse?), il rischio sarebbe quello di un repentino ridimensionamento del prezzo del latte. Non sarebbe molto meglio essere cauti in stalla?
Francia e Germania
In altri paesi europei, come in Francia e in Germania, lo shock della crisi che avuto il suo culmine fra aprile e maggio dello scorso anno è stata di insegnamento agli allevatori, ancora oggi molto prudenti rispetto alla tendenza a produrre e con andamenti inferiori rispetto allo scorso anno.Il prezzo del latte è piuttosto sostenuto in tutta Europa, con valori che – per alcuni mercati - raramente si erano registrati anche in passato.
È il caso ad esempio dell’Olanda, dove mercoledì 2 agosto 2017 il mercato locale ha quotato il latte crudo intero spot 43,50 €/100 kg, con un balzo in avanti del 7,41% rispetto alla settimana precedente. Ma a colpire è il raffronto rispetto allo stesso periodo del 2016, dove le rilevazioni si fermavano a 30,50 €/100 kg o addirittura ai prezzi di agosto 2015, nel pieno della crisi, con il latte valutato 24 €/100 chilogrammi.
La cooperativa olandese Friesland Campina ha deciso nelle ultime settimane di riconoscere ai propri soci un prezzo più alto del latte di circa 39 €/100 chilogrammi.
Situazione analoga in Germania, dove la Dmk (la cooperativa più importante per dimensione della nazione) ha stabilito per i propri conferenti un prezzo di 38,63 €/100 kg a partire dal 1° agosto scorso.
Un bel salto in avanti, visto che solamente a gennaio aveva riconosciuto un prezzo di 32,43 euro. La maggiore remunerazione dei soci si spiega con i calcoli che i vertici della Dmk hanno fatto circa i maggiori ricavi dei formaggi, del burro, e della polvere di latte intero (Wmp).
L’aumento del prezzo dovrebbe mitigare le proteste del Meg Milch Board che, riprendendo le stime dell’Ufficio per la sociologia agraria (Bal), evidenzia come ad aprile i costi per la produzione del latte siano stati pari a 42 centesimi per chilogrammo di latte. Ben al di sotto, dunque, ai prezzi che mediamente venivano riconosciuti alla stalla in quel periodo, pari a 33,87 centesimi al chilogrammo.
La maggior parte dei calcoli relativi ai costi di produzione del latte non prendono in considerazione la prestazione di lavoro, ha sottolineato nei giorni scorsi il presidente dello European milk board, Romuald Schaber. "Purtroppo - ha proseguito - a causa di ciò anche i produttori di latte si sentono spesso costretti a stimare molto poco il valore del proprio stesso lavoro".
E anche in Francia e in Danimarca, dove il prezzo alla stalla è pari rispettivamente a 32 e 35 centesimi, non è stato possibile coprire i costi di produzione, superiori ai 40 centesimi.
In Francia il distributore indipendente E. Leclerc ha innalzato a 35 € per 100 litri il prezzo del latte, assicurando, come riporta Le Figaro, che "Vigilerà affinché queste somme, versate tramite i trasformatori a fine anno, siano integralmente rese agli allevatori". L’impegno della società sarà valido fino alla fine del 2017, allo scopo di valorizzare l’offerta al di fuori delle negoziazioni. La decisione, con ogni probabilità, è ispirata alle recenti discussioni avvenute nell’ambito degli Stati generali dell’alimentazione, che si sono tenuti pochi giorni fa a Parigi.
La domanda che serpeggia è pertanto la seguente: alla luce di aumenti dei prezzi a livello internazionale, non è che agli allevatori torna la voglia di ricominciare a produrre senza tenere conto dei fattori esterni? Perché una produzione senza controllo sarebbe deleteria per il mercato mondiale.
Il “Fattore M”
Accanto a qualche consiglio di "avvedutezza" produttiva, se così si può dire, è bene rimarcare l’importanza dell’export come soluzione per garantire una marginalità superiore alle imprese lattiero casearie. I margini per crescere ci sono. E anche l’Italia potrebbe approfittarne, magari lucidando un po’ uno dei propri prodotti simbolo: la mozzarella.È vero che è considerata patrimonio dell’umanità e che il re della pizza è il brand americano Pizza Hut, ma il tricolore dovrebbe essere una garanzia per il made in e scalzare altri competitor sul campo importante appunto della mozzarella.
La cooperativa neozelandese Fonterra, la più grande al mondo per numero di soci, fatturato e per volumi produttivi, per la prima volta invierà in Cina mozzarella prodotta dallo stabilimento costruito in Australia, incrementando così rapporti commerciali a dazio zero che hanno con il Paese del dragone.
La crescita delle esportazioni verso la Cina è dovuta al fatto che in Oriente i consumi di formaggio seguono la curiosità della popolazione, spinta a provare i prodotti lattiero caseario grazie alla diffusione sempre maggiore di ristoranti occidentali. Fonterra ha affermato che il 40% delle persone della Cina urbana mangia una volta alla settimana nei ristoranti in stile occidentali e che l’uso di prodotti lattiero caseari è aumentato del 30% in cinque anni.
Un’occasione d’oro per sfruttare appunto il "Fattore M", quello della mozzarella, anche da parte di chi l’ha inventato questo formaggio versatile e di facile consumo: gli italiani.
In un mercato che si sta aprendo come quello cinese, dove già il made in Italy si è creato una breccia grazie alle esportazioni di panna (sostenuta e sponsorizzata in cucina dai cuochi italiani che tengono corsi nei confini della Grande Muraglia), si potrebbe creare un vantaggio competitivo per le aziende di casa nostra.
Basta volerlo.