Ultimamente, sulla scia dei cosiddetti “grani antichi”, il Senatore Cappelli è tornato alla ribalta dopo alcuni decenni di relativo abbandono, causa l’arrivo di varietà più moderne e produttive a partire dagli anni ’50. Come talvolta accade quando si ritorna all’onore delle cronache, anche alla varietà strampelliana sono toccate anche alcune vicissitudini, come evidenziato dalla trasmissione di Rai3 Report nella sua puntata del 19 ottobre scorso, in cui si riassumevano soprattutto le vicende brevettuali e commerciali, causa di polemiche decisamente infuocate.
AgroNotizie ha quindi deciso di intervistare lui, per meglio comprenderne la storia e i risvolti forse meno noti. Del resto, già un suo “fratello” era stato intervistato in passato, ovvero Ardito, in occasione del suo centenario.
Caro Senatore, intanto complimenti: non capita mica tutti i giorni di attrarre a 105 anni tutta l’attenzione mediatica, tecnica, scientifica e commerciale che ha saputo attrarre Lei.
“Mah, guardi, per noi cereali il tempo è relativo. Un attimo fa eravamo specie selvatiche fra loro incompatibili e poi, tàc, eccoci qui”.
Beh, “un attimo” mi sembra un filo riduttivo: sono passate alcune migliaia di anni da quando avvenne la fecondazione magica e quasi impossibile in natura che diede ai cereali la vita per come noi oggi conosciamo…
“Ma sa, cosa vuole che siano 9-10.000 anni per un cereale. È infatti più o meno allora che il Triticum dicoccum fagocitò inspiegabilmente l’intero genoma di Aegilops tauschii, praticamente un’erbaccia che oggi diserbereste senza pietà, generando quello che oggi conosciamo come Triticum spelta, o farro. Da lì in poi la strada è stata tutta in discesa”.
Sì, ma la discesa a volte può essere piena di buche. Basti pensare a quello che dicevano di Lei e dei suoi fratelli strampelliani quando veniste presentati…
“Eccome. Ogni novità genera in primis avversione. Pensi che pomodoro e patata ci misero molti anni a entrare stabilmente nell’alimentazione europea, a causa della diffidenza delle persone verso questi prodotti figli del Nuovo Continente. Quindi, a bocce ferme, possiamo dire che tutto sommato gli ostruzionismi alla nostra avanzata furono perfettamente spiegabili dalla diffidenza congenita che da sempre pregna la natura umana”.
Ci può raccontare in breve la Sua storia?
“Ma certo. Avrò pure 105 anni, ma la memoria funziona ancora benissimo. Il mio ingresso fra le varietà di frumento duro italiane, quindi mondiali, risale al 1915, quando già infuriavano le battaglie con gli Austroungarici sui confini del Carso. Geneticamente derivo dal lavoro svolto da Nazareno Strampelli, il mai abbastanza compianto agronomo e genetista agrario marchigiano, nato a Castelraimondo in provincia di Macerata, quindi non lontano dal confine umbro. All’epoca Strampelli stava lavorando nell’ambito di un programma di selezione da lui stesso avviato nel 1906, in Puglia, regione cerealicola regina in Italia. Invece di ereditare però il nome dal padre, come avviene fra voi umani, io l’ho ricevuto dalla persona che ospitava le prove agronomiche nei suoi terreni, ovvero il Senatore Raffaele Cappelli, da cui appunto ereditai sia il nome, sia il titolo istituzionale”.
Quali sono i Suoi ancestrali? Mica sarà nato così, dal nulla no?
“Nulla nasce dal nulla, ovviamente. E pensi, sono nato in Puglia grazie al lavoro di un ricercatore marchigiano, ma i miei geni arrivano dall’altra parte del Mediterraneo, dato che sono stato selezionato a partire da una varietà nordafricana, ovvero la Jeanh Rhetifah”.
Cosa aveva questa varietà da attirare l’attenzione di Strampelli?
“Mostrava soprattutto una discreta tolleranza alla siccità. Non a caso era già coltivato da tempo nelle regioni del Sud Italia, tipicamente siccitose. Anche per tale ragione anche io sono andato per la maggiore soprattutto nel vostro Meridione, poi nel resto dello Stivale, dove sono divenuto in fretta il frumento duro più coltivato in Italia fino al secondo dopoguerra, quando venni progressivamente sostituito da nuove varietà più produttive. In pratica, sono nato con una guerra e sono tramontato dopo con quella successiva. Del resto, il ricambio generazionale è fatto naturale. Pensi al buon Vincenzo Nibali, il campione siciliano che a 36 anni è stato superato al Giro d’Italia da dei ragazzi che hanno poco più di vent’anni e che correvano nelle giovanili quando lui trionfava al Giro, al Tour e alla Vuelta... Ogni campione prima o poi deve capire quando è arrivato il momento di abdicare. In questo io non ho nemmeno dovuto prendere alcuna decisione, visto che fu il mercato stesso a decretare il mio tramonto e l’alba di quelli che oggi chiamate inspiegabilmente grani moderni, sebbene molti di questi siano per via diretta o indiretta figli miei…”.
Sbaglio o mi ha strizzato l’occhio?
“Io non ho occhi, ma quella fessura lungo la cariosside, in effetti, somiglia un po’ a un occhiolino strizzato…”.
Lazzi a parte, Lei ha coperto un ruolo da vero protagonista nella costituzione di numerose varietà di grano duro lanciati negli ultimi decenni in Italia
“Eccome, moltissimi fra gli attuali genotipi di frumento duro italiani hanno nel loro albero genealogico porzioni variabili della mia genetica”.
Quindi, muscoli moderni, ma cuore “antico”?
“Sì, in effetti potremmo persino dire che anche i grani duri considerati moderni, con diversa estensione mutevole di varietà in varietà, potrebbero essere definiti ‘diversamente antichi’ in base ai miei geni presenti nel proprio genoma… Peraltro, ragionateci un attimo, fra 70-80 anni saranno loro i grani antichi, tanto quanto lo sono diventato io oggi. E magari ci sarà di nuovo qualcuno che proverà a rilanciarli commercialmente cavalcando, sempre come fate oggi, la nostalgia del passato o, peggio, supposte superiorità sanitarie rispetto alle varietà che fra qualche decennio avranno rimpiazzato loro come loro hanno rimpiazzato me. Per continuare nella metafora ciclistica, la vita è una ruota: anche per le varietà di grano. Oggi sei un’innovazione rivoluzionaria osteggiata dai tradizionalisti, domani vieni superato senza troppi rimpianti dagli stessi innovatori e dopodomani vieni furbescamente rispolverato quasi tu fossi un quadro di Van Gogh trovato in soffitta. Lei sicuramente non ci sarà quando ciò accadrà – e mi spiace per Lei – ma io sì. Sarò ancora lì, coltivato ancora da qualcuno che in me troverà una ragione d’esistere, divertendomi a vedere tutti quelli che parleranno di glutine e di intolleranze con le medesime modalità con cui se ne parla oggi: passato contro presente. Uno scontro infinito”.
A proposito degli aspetti commerciali, ma si può sapere cosa è successo con la puntata della trasmissione Report, di Rai3, dedicata proprio a Lei e alle dinamiche con cui oggi viene distribuito?
“Bene spiegare l’origine delle polemiche dall’inizio. Io tornai in auge nei primi anni ’90, rispolverato da un’azienda marchigiana che mi riseminò nei campi per ricominciare a produrre pasta. A promuovere la mia riscoperta fu però soprattutto il Crea, ovvero il Consiglio per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria. Quindi un ente pubblico direttamente sotto il controllo del Mipaaf che di fatto detiene i diritti patrimoniali sul mio sfruttamento commerciale”.
E quindi come mai sono nate le polemiche se Lei è di fatto protetto da un’appartenenza di tipo pubblico?
“Caro mio, le cose cambiano. Infatti nel luglio 2016, dopo anni in cui ero stato riprodotto più o meno liberamente da personaggi laqualunque, il Crea indisse un bando per conferire al vincitore una licenza esclusiva sia per la moltiplicazione, sia per la commercializzazione del qui medesimo. Ciò comportava quindi anche la mia certificazione per un periodo di 15 anni. Il bando venne vinto dalla Sis, acronimo di Società Italiana Sementi, operante sotto l’ombrello Coldiretti”.
Un bene quindi, visto il goga bagoga degli anni precedenti?
“Da un lato sì, perché prima di quel conferimento il mio commercio era diventato una specie di far west. Mi si poteva trovare proposto da una molteplicità di persone, oppure capitava di essere riseminato in continuo dai medesimi agricoltori senza alcun controllo. Si figuri che ogni tanto c’era chi seminava del grano venduto come Senatore Cappelli e poi in mezzo al campo si ritrovava piante di grano tenero. Alla faccia della purezza del seme… Se oggi ci fosse ancora Strampelli sono convinto che inizierebbe col chiedere se siamo davvero sicuri che i grani che oggi vengono chiamati Senatore Cappelli, siano davvero geneticamente uguali a quello da lui proposto un secolo fa. Io personalmente ne dubito, perché a suon di girare a destra e a manca e di seminarmi e riseminarmi in proprio all’infinito, è praticamente impossibile che la genetica attuale a me attribuita sia identica a quella che sarebbe stata oggi se fin dal principio vi fosse stata una gestione certificata e controllata della mia purezza, cioè della mia corrispondenza genetica con quanto aveva prodotto in prima battuta il mio creatore”.
Ma allora, il rovescio della medaglia nella concessione alla Sis, dove sarebbe?
“La vincita di quel bando pubblico mise fine a quell’epoca senza regole e questo ha indotto molti altri player del settore a protestare, in quanto espulsi da un commercio fino a quel momento abbastanza lucroso. E così si è dovuta pronunciare perfino l’Antitrust, ovvero l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Questa ha emesso una sentenza avversa alla Sis, multata per 150mila euro per aver instaurato un monopolio. L’Autorità argomentò la propria decisione con il fatto che la vendita della mia semente sarebbe stata operata secondo una logica di esclusiva corporativista, per giunta con l’obbligo per le aziende agricole di riconsegnare alla Sis l’intero loro raccolto. Molti lamentarono poi ritardi ritenuti sospetti nella consegna della semente. Ritardi che talvolta sarebbero stati trasformati in rifiuti di fornitura se non si era iscritti a Coldiretti. Infine, la fissazione opinabile dei prezzi, con aumenti ritenuti spesso ingiustificati dall'Autorità. Una cosa che al Crea, ovviamente, non è affatto piaciuta. Purtroppo, la querelle si è anche ripercossa sui produttori, i quali hanno comunque avuto disagi per l’interruzione del sistema adottato, condivisibile o meno che fosse. Ogni medaglia, come domandava Lei, ha sempre un suo rovescio”.
Quindi regolamentazione sì, ma trasparenza commerciale pure. Speriamo bene… Ma ora tocchiamo un altro punto: è vero che Lei non ha bisogno di pesticidi e di concimi?
“Ni. Circa i fertilizzanti azotati non è che non mi piacerebbe riceverne. Produrrei teoricamente molto di più di oggi, visto che arrivo sì e no alla metà delle rese di altre varietà moderne, quando va bene. A volte non arrivo a un terzo”.
Perché teoricamente?
“Perché io ho uno stelo di 120-130 centimetri almeno. S’immagina come mi alletterei facilmente se venissi per giunta fertilizzato con i concimi di cui beneficiano le varietà a taglia bassa? Però, la mia crescita veloce e vigorosa contrasta meglio le infestanti rispetto a quanto accade nelle varietà basse. Queste necessitano quindi di attenti diserbi, altrimenti verrebbero soffocate molto più di quanto accada a me, che comunque con le malerbe devo lo stesso combattere ferocemente anch'io, sia chiaro. Insomma, il mio punto di forza è contemporaneamente il mio punto di debolezza”.
Per qualcuno sarebbe una manna se tutta la superficie a grano duro italiano venisse convertito da intensivo-moderno a biologico-cappelliano…
“Ma non mi facciano ridere le glume… Facciamo due conti: in Italia coltivate a grano duro circa 1,2 milioni di ettari, giusto? Quindi, a spanne, una produzione di poco più di 4 milioni di tonnellate. Ma queste mica bastano. Stando alle parole di Cosimo De Sortis, Presidente di Italmopa, l’Italia ha un fabbisogno d’importazione di grano duro stimato nel 55%. Quindi già oggi producete meno della metà del grano duro di cui avete bisogno per produrre tutta la pasta che mangiate o che esportate. Ora, pensate a cosa succederebbe se tutta la vostra superficie a grano duro attuale venisse seminate con… con me! Magari a biologico. Producendo meno della metà dei miei figliocci attuali, vi mancherebbe, se va bene, più della metà dei 4 milioni di tonnellate oggi prodotte. In certi casi arrivereste a poco più di un terzo. Quindi, invece di importare la metà, dovreste importare i tre quarti o più di quello che vi serve. Già me li sento gli strilli che si leverebbero al cielo dai soliti noti, quelli che gridano alla blasfemia a ogni nave straniera che carica di grano canadese attracca al porto di Bari...".
Non me lo dica... ogni volta che accade non so se ridere o se piangere. Sembrano un disco rotto. Ma non ci sarebbe qualche altro modo per compensare tali perdite assolute di quantità?
"Certo che sì, ma non penso siano auspicabili. Se proprio non volete importare di più, dovreste infatti più che raddoppiare gli ettari nazionali a grano duro, ma dato che la vostra superficie agricola è sempre in diminuzione, dovreste tagliare la produzione di altre colture, dicendo addio anche ad alcune rotazioni. Oppure ancora dovreste arare nuovi terreni al momento selvatici, dando una spallata micidiale alla tanto reclamata biodiversità territoriale. Certo, magari la pasta che vendereste costerebbe molto di più. Ma qui ci guadagnerebbero soprattutto industrie e Gdo, mica gli agricoltori. A loro invece, oltre alle tradizionali briciole commerciali, resterebbero tutte le ambasce di coltivare una varietà che sta a quelle attuali come una pur pregevole Balilla sta a una moderna berlina Euro 6. No, guardi. Non fareste per nulla un affare. Meglio cioè che io resti un mercato di nicchia, atta a soddisfare una specifica domanda di altrettanto particolari consumatori. Una domanda che purtroppo non è stata nemmeno originata in modo del tutto trasparente”.
In che senso, trasparente?
“Nel senso che di me sono state narrati pregi che sconfinano talvolta nell’agiografico e nel taumaturgico, quando io, lungi dall’essere un santo e dal fare miracoli, sono solo una varietà di grano duro con oltre un secolo sul gobbo e che comunque sarebbe bene non venissi mangiato da certi soggetti che patiscono di celiachia o serie intolleranze al grano. Il tutto a dispetto di alcuni trials clinici gravati però da alcune limitazioni apertamente ammesse da molti degli stessi autori degli studi. Ma su questo mi pare di capire Lei abbia già in pista un approfondimento, vero?”.
Sì, ammetto che una di queste ricerche mi ha indotto a una lettura approfondita delle modalità e dei risultati. Ma non voglio rovinarLe la sorpresa…
“Non ne dubito. Lo sa, vero, che riceverà più saette del parafulmine di Benjamin Franklin?”
Sì, lo so. Ma del resto, se il grande fisico americano avesse avuto paura dei fulmini, noi oggi non avremmo gli strumenti atti a intercettarli e renderli innocui. Quindi piaccia o non piaccia, qualche voce fuori dal coro sarà sempre bene ci sia.