Fra le ambasce della moderna popolazione occidentale vi sono quelle legate al cibo, sempre più accusato di provocare disturbi fra i più disparati e quindi posto con crescente attenzione sotto i riflettori di media e ricercatori. Il "marketing del senza", infatti, insegna: una volta individuato qualcosa di supposto nocivo (spesso non lo è affatto), le industrie corrono subito a coprire le confezioni dei propri prodotti con bollini che assicurano il consumatore che, loro, quel tal prodotto non ce lo mettono. Che abbia senso scientifico o meno, poco importa: la concorrenza per il fatturato non brilla certo per statura morale e onestà intellettuale.

Fra i grandi accusati di molteplici nefandezze, per esempio, spiccano lattosio e glutine, due componenti naturali di latte e latticini il primo, di pasta e di prodotti da forno il secondo. Il messaggio passato da diversi media e da alcuni player della filiera, purtroppo, è infatti che i cibi senza lattosio e senza glutine siano migliori a prescindere, per chiunque, non solo per chi abbia conclamati problemi di allergie o intolleranze (quelle vere, non quelle psicosomatiche).

A conferma degli effetti irrazionali di tale stortura è giunta persino la testimonianza di Giorgio Santambrogio, amministratore delegato del Gruppo Végé. Questi, fra il divertito e l’imbarazzato, avrebbe affermato che di prodotti senza glutine se ne venderebbero oggi circa dieci volte tanti quelli lecitamente attendibili guardando le statistiche sanitarie. Una testimonianza condivisa con la platea il 2 ottobre scorso, in occasione dell’edizione 2020 del Food & Science Festival di Mantova.

In sostanza, nove individui su dieci che comprano prodotti “gluten free” lo fanno senza averne alcun bisogno, persuasi ormai che il glutine sia una sostanza strana che fa male a chiunque la mangi, quando al contrario è un componente prezioso dei cereali, ovvero di quei prodotti agricoli su cui si basa gran parte della nostra alimentazione da qualche millennio.

Quello del “free” è infatti un business enorme per industrie e gdo che vendono ovviamente quei prodotti a prezzi più cari di quelli convenzionali. Una bizzarra assurdità per i consumatori e per la verità fattuale delle cose. Anche perché “free” significa “libero”: essere “liberi” da un costituente fondamentale del cibo ha senso zero. Avendo però un’accezione positiva - la libertà è sempre vista come cosa bella a prescindere - porre il fatidico “free” dietro alla dicitura laqualunque pervade il prodotto di un crisma di superiorità qualitativa, spesso solo millantata. Se quindi è pienamente condivisibile l’asciutta avvertenza “Senza glutine”, utile ai celiaci per individuare i prodotti idonei per loro, l’espressione “Gluten free” afferisce al già più volte deprecato “marketing del senza” citato nell’incipit di questo articolo.  

La ricerca sul Senatore Cappelli

La varietà Senatore Cappelli è nata fra le due guerre mondiali dall’ingegno di Nazareno Strampelli, arricchendo il panorama cerealicolo mondiale di un grano duro dagli indubbi vantaggi produttivi per l'epoca. Una varietà così nobile da dedicargli infatti una puntata delle “Interviste impossibili”.


Recentemente rispolverato sull’onda della campagna mediatica nata sui cosiddetti “grani antichi”, il Senatore Cappelli è stato valutato anche da un team dell’Istituto Policlinico Gemelli di Roma, cercando di individuare eventuali benefici digestivi a favore di soggetti conclamatamente afflitti da problemi gastrointestinali dovuti a pasta e altri prodotti derivati dal grano. In sostanza, i ricercatori romani hanno cercato di verificare se la pasta derivata dal Senatore Cappelli fosse in qualche modo più digeribile di quella “convenzionale” quando somministrata a persone in cui penne e rigatoni producono effetti molto fastidiosi a livello enterico e non solo.


A un'occhiata preliminare ai grafici riassuntivi parrebbe che sì, un certo effetto ci sarebbe. Ciò ha provocato i prevedibili entusiasmi di chi è alla perenne ricerca di cibi supposti più sani, come pure ha generato una frettolosa voglia di chiudere qui la partita da parte di chi quei prodotti li vende. A una lettura più accorta della ricerca, invece, pare sia ancora ben lontana la dimostrazione di quanto affermato, suggerendo un prudente scetticismo che solo delle ricerche più ampie ed esaurienti potrebbero fugare. Ma, come sempre si dice in questi frangenti, andiamo per ordine.


La ricerca romana

In primis, gli stessi autori ricordano l’incertezza che si è sviluppata recentemente circa la reale responsabilità del glutine nei processi che causano intolleranza, o meglio “sensibilità”. Si sta infatti passando dall’acronimo NCGS (non-celiac gluten sensitivity) al NCWS, ovvero la non-celiac wheat sensitivity. Cioè una più generica sensibilità a qualche componente del grano, non necessariamente il glutine. Fra i principali indiziati in tal senso vi sono i fruttani, ovvero carboidrati a catena corta facilmente fermentescibili, ma anche le agglutinine e alcuni inibitori delle amilasi.

Non a caso, gli autori sottolineano come il ruolo del glutine sia stato ridimensionato nel tempo, ricordando anche ricerche in cui alcuni pazienti sono stati somministrati di glutine di nascosto (blinded somministration, cioè somministrazione in cieco), senza però mostrare i sintomi normalmente dichiarati. Un’evidenza che apre quindi la strada non solo a valutazioni di più ampio spettro, che vadano cioè oltre al semplice glutine, bensì anche a considerazioni sugli aspetti psicologici (e psicosomatici) di certe intolleranze, le quali potrebbero benissimo essere dei banali effetti nocebo, cioè il contrario dell'effetto placebo, dovuti al martellamento mediatico su quanto sia velenoso il tal cibo o indigesto il tal altro. A suon di sentirsi dire che i grani moderni fanno male (i sintomi nefasti proposti sono dozzine), alla fine le persone più suggestionabili finiscono con l’avvertire quei sintomi quando mangiano una pasta o una pizza, anche se di fatto il loro intestino avrebbe digerito benissimo entrambe. Il problema è che è difficile distinguere gli intolleranti veri da quelli immaginari. I test in cieco, con la somministrazione di nascosto della sostanza incriminata, sarebbero in effetti una buona soluzione.

Iniziamo quindi col ricordare quali siano le regole auree da adottare per eseguire una ricerca di sicura affidabilità.


Buone regole da seguire

Di norma, per fornire risultati affidabili, il numero di soggetti da coinvolgere in uno studio clinico dovrebbe essere il più ampio possibile, in quanto poche decine di persone rischiano di mortificare poi l’eventuale analisi statistica. Inoltre, i soggetti dovrebbero essere posti in una condizione controllabile in modo continuo e preciso da parte di chi esegue il test, in modo da isolare al meglio le variabili oggetto di studio da possibili fattori confondenti. Magari trovando anche il modo di misurare in modo oggettivo le risultanze della prova, anche a costo di ridurre il numero di variabili considerate.
Diversi sono quindi i punti di debolezza della ricerca in questione.

Modalità di rilevamento dei punteggi
Basare il test sulle affermazioni dei soggetti stessi, tramite questionari o “visite” telefoniche ai pazienti nelle loro case, può aprire la strada a diversi errori di valutazione. Banalmente l’omissione, volontaria o involontaria, da parte di qualche soggetto di aver deviato dal piano alimentare prestabilito, avendo ingerito qualcosa che potrebbe aver influito in un senso o nell’altro. E questo non solo per quanto riguarda dei prodotti a base di grano: mangiare insalata cruda anziché spinaci cotti, per esempio, può generare differenti sensazioni di gonfiore, influendo poi sulla massa fecale e sul successivo svuotamento intestinale. Stessa cosa se si mangiano kiwi, banane o mele: sempre frutta è, ma con influenze diverse sull’intestino. Deve cioè esservi il massimo controllo di ogni variabile se si vuole poi essere ragionevolmente certi che le influenze osservate (e non solo riferite) siano attribuibili esclusivamente a ciò che si intendeva indagare. Basarsi su questionari o interviste telefoniche avulse da controllo a “prova di bomba” lascia invece aperta la porta a un certo grado di aleatorietà. Ogni parametro dovrebbe poi essere oggettivamente misurabile, anche per via strumentale, anziché chiedere ai pazienti stessi delle valutazioni soggettive esprimibili con un punteggio. Si rischia infatti di confondere una “sensazione” con un dato misurato. Due cose molto, ma molto diverse, dato che fra “sentirsi” ed “essere” corre una notevole differenza.

Non si conosce il confronto
Lo standard di riferimento utilizzato nella prova in questione è una pasta derivante da una generica e non specificata miscela di grani duri italiani, europei ed extraeuropei. In sostanza, è stata confrontata una varietà sola e ben specificata, il Senatore Cappelli, con una miscela ignota che potrebbe variare per composizione migliaia di volte nel tempo in funzione delle miscele di grani utilizzate dai diversi pastifici.

Esiguità del campione statistico
Solo 42 i pazienti selezionati, 21 per gruppo, di cui solo 34 hanno completato lo studio. Degli 8 che hanno rinunciato, per motivi di reazioni avverse, 5 erano stati alimentati con paste convenzionali, 3 con Senatore Cappelli. Entrambi i gruppi sono stati prima sottoposti a un washout di 2 settimane “gluten free”, poi avviati un gruppo alla pasta Cappelli, l’altro alla pasta convenzionale. Dopo due settimane altro washout e poi inversione dei gruppi. Dei 34 che hanno terminato entrambi i giri sperimentali, 30 spettano al Cappelli, 25 alla pasta standard. Quindi, pare già di capire da questa osservazione che se si soffre davvero di intolleranze serie, conviene per prudenza mangiare riso, anziché cercare la soluzione in varietà di grano differenti che diversi disagi li possono comunque procurare, anche di discreta entità. Se invece non si soffre di alcunché, si può mangiare quello che ci pare, avendo come unico limite il buon senso alimentare.

Molti parametri di difficile misurabilità
I parametri sui quali i soggetti sono stati intervistati vanno dal semplice gonfiore addominale al mal di testa. Non mancano ovviamente le considerazioni sulle feci, se morbide o dure, oppure se il passaggio del materiale fecale fosse diminuito o aumentato. Ai pazienti è stato chiesto anche di valutare nausea/vomito, eruttazione, flatulenze, borborigmi intestinali (quei rumorini corrispondenti al passaggio di liquidi e gas nell’intestino), distensione addominale, nonché acidità e bruciore di stomaco. Anche delle mere sensazioni sono state richieste come valutazione. Per esempio, se i soggetti avvertivano un aumentato senso d’impellenza ad andare in bagno. Altri aspetti sui quali sono stati intervistati i soggetti toccavano parametri lontani da quelli intestinali, come per esempio eventuali parestesie degli arti (alterata sensazione come per esempio l’intorpidimento), mal di testa, offuscamento (sonnolenza per esempio), perfino l’insorgenza di dermatiti. Molte di queste variabili sono state cioè valutate in base a impressioni, non a misurazioni.

Dosi somministrate
Alle “cavie” sono stati somministrati 100 grammi di pasta al giorno per 15 giorni di fila. In sostanza, un consumo annuo di 36,5 kg di pasta pro-capite. Un po’ tantino per dei sofferenti di disturbi intestinali legati al grano, anche in considerazione del fatto che il consumo medio italiano è di circa 26 kg/anno, sospinto verso l’alto da chi, ovviamente, di problemi con le pastasciutte ne ha davvero pochi. Ai soggetti testati, certamente non molto inclini di per sé a penne e bucatini, ne è stato somministrato il 40% in più, per giunta in modo continuativo. Quindi una situazione che va percepita come forzata rispetto a un'alimentazione standard, in cui sono in molti a consumare pasta non più di una o due volte la settimana e magari in ragione di 70-80 grammi.

Risultati contrastanti
Ciò che lascia perplessi all’analisi del grafico riassuntivo dello studio è che gli istogrammi blu, relativi alla pasta non-Cappelli, siano espressione di punteggi sistematicamente più elevati degli istogrammi rossi, quelli della pasta-Cappelli. In sostanza, per ogni singola variabile sulla quale sono stati intervistati i soggetti, il primo tipo di pasta ha sempre ottenuto punteggi più alti della pasta Cappelli, anche su osservazioni fra loro contrapposte. Lascia infatti un po’ disorientati il fatto che la pasta "convenzionale" abbia superato nei punteggi la pasta Cappelli sia quando si trattava di valutare feci “più dure” del normale, ma anche quando a essere valutate erano feci “più morbide”. Alla pasta convenzionale era attribuito anche un aumentato transito intestinale della massa fecale, ma pure un ridotto transito intestinale. Cioè condizioni fra loro del tutto opposte che alimentano quindi il dubbio che i soggetti abbiano risposto alle domande senza avere perfetta padronanza del modo stesso in cui avrebbero dovuto fare le valutazioni. O, in alternativa, che i vari soggetti abbiano reagito fisicamente in modo diametralmente opposto alle diverse paste somministrate. Il che renderebbe alquanto difficile eleggere quel grano a soluzione urbi et orbi, visto che tante teste, tante pance... Ma vi è di più: sebbene le due paste siano state fornite alla "cavie" con imballaggi anonimi, indistinguibili l'uno dall'altro, anche la componente soggettiva dei vari individui può aver giocato in tal senso, perché non si può essere del tutto sicuri che i “pazienti” non si siano accorti, magari in modo inconscio, di quale fra le due somministrate fosse la pasta Cappelli, da loro mai mangiata prima e quindi potenzialmente individuabile per differenze anche minime nell’aspetto, nei tempi di cottura e nella consistenza finale. Interessante sarebbe quindi valutare il grado di consapevolezza individuale tramite assaggi in doppio cieco, al fine di comprendere se fra una pasta di tipo convenzionale e una di grano Cappelli vi siano differenze rilevabili al palato, non necessariamente positive o negative. Se tali differenze fossero in qualche modo rilevabili, anche solo da una parte dei soggetti, l’intero impianto metodologico di prove come quella citata andrebbe profondamente rivisto per depurarlo da intuizioni personali che potrebbero inficiare il concetto stesso di doppio cieco.


Considerazioni finali

Nella prova in questione non si è trattato di somministrare un farmaco a confronto con un placebo a dei pazienti ospedalizzati e uniformati per tutte le altre condizioni, a partire dall’alimentazione. In tal caso l’unica variabile a differire sarebbe l’effetto stesso del farmaco. I risultati del confronto farmacologico, sempre e solo in doppio cieco ovviamente, sarebbero quindi robusti e attendibili. Completamente diverso è impostare una prova basata su qualche decina di persone (già 42 erano pochine, ridottesi poi a sole 34), le quali hanno vissuto la propria vita per settimane nelle proprie case, andando a lavorare, mangiando e bevendo anche fuori casa senza la possibilità di controllare in modo preciso il reale allineamento con la dieta proposta.

Peraltro, meglio sarebbe se ogni parametro fosse oggettivamente misurato, anziché soggettivamente espresso. Una cosa è infatti misurare la temperatura a due gruppi di pazienti, al fine di comprendere il reale effetto di un antipiretico verso un placebo, un’altra è chiedere ai medesimi pazienti valutazioni soggettive del proprio gonfiore addominale oppure della consistenza e abbondanza delle proprie feci, o ancora sull’intensità e frequenza delle proprie eruttazioni e dei propri peti.

In sostanza, la prova condotta all’ospedale Gemelli di Roma, per quanto interessante, apre solo la strada ad auspicabili valutazioni successive molto più estese per numero di pazienti, nonché più attendibili quanto a criteri di misurazione dei diversi parametri, magari abbandonando la via dei questionari, troppe volte utilizzata per valutare dei trend, sottovalutando l’estrema aleatorietà che tale approccio comporta.

Purtroppo, tali ricerche hanno dato la stura a esultanze rumorose da parte di chi ha convenienza a chiudere frettolosamente la questione attribuendosi una vittoria a tavolino quasi senza aver giocato davvero la partita. E proprio in tal senso si auspica che di tali aspetti se ne occupino altri centri di ricerca, possibilmente in modo differente per metodi e significatività, magari operando solo grazie a finanziamenti pubblici e non di parti in gioco, come in altri casi è successo. Una situazione che sarebbe stata fonte di polemiche feroci se si fosse palesata in prove sviluppate su un prodotto di una multinazionale, finanziate dalla multinazionale stessa. Per chi ha quindi la coerenza come faro nella vita, nemmeno le prove su un ben preciso tipo di grano dovrebbero essere finanziate da chi quel grano vende, oppure da chi ne vende il prodotto finale.