Ma di grano quasi non s'è parlato in occasione della presentazione del World pasta day 2019, tenutasii il 15 ottobre a Milano. Pare infatti che il pianeta abbia sempre più fame di pasta, visto che in soli dieci anni il consumo è quasi raddoppiato, raggiungendo i 15 milioni di tonnellate annue. Un contesto in crescita nel quale l'Italia gioca la parte del leone sia per produzione, sia per export, sia per consumi. Pro capite il Belpaese consuma infatti 23 chili l'anno, davanti a Tunisia, con 16, Venezuela, 12, e Grecia, 11,2.
Di tale abbondanza, un quarto sarebbe prodotto in Italia, ove si realizzano circa 3,4 milioni di tonnellate. Di queste, il 58% viene esportato, soprattutto verso Germania, Regno Unito, Francia, Stati Uniti e Giappone.
Numeri quindi senz'altro interessanti, ma che riguardano esclusivamente l'industria, non l'agricoltura. Peccato infatti che per produrre la pasta, ce lo ricorda perfino Barilla nei suoi spot pubblicitari, serva solo "grano e acqua".
L'atavica carenza di prodotto interno, specialmente di alta qualità, ha però generato il loop perverso per il quale da un lato si sventola la pasta quale bandiera del made in Italy, salvo basare dall'altro gran parte della produzione su grani d'importazione. Di sicuro, l'Italia non ce la farà mai da sola a produrre tutta la pasta con grano proprio, quindi va accettato il fatto che nei porti nazionali attracchino navi straniere da decine di migliaia di tonnellate per volta. Con buona pace degli allarmisti di professione che a ogni attracco sparano fulmini e saette paventando rischi sanitari catastrofici per micotossine e glifosate. Due temi che regolarmente si rivelano vuoti, dati gli elevatissimi livelli di sicurezza che la filiera della pasta garantisce.
Fatto salvo quindi che il grano duro straniero serve ed è sicuro, valutiamo però un tema che esula da quello meramente economico, come pure da quello nazionalistico, cioè quello della sostenibilità. Una parola che anche durante la presentazione del World pasta day 2019 è stata pronunciata quasi allo sfinimento. Nel paragrafo successivo si cercherà quindi di analizzare la sostenibilità ambientale, specificatamente quella legata alle emissioni di gas serra per i trasporti della materia prima. E perché no, anche del prodotto finito.
Sei grammi contro trenta
In termini di sostenibilità in chiave Global warming, i trasporti intercontinentali delle merci giocano un ruolo fondamentale. Non a caso, negli Usa hanno calcolato che le emissioni complessive dei trasporti, civili e industriali, copre circa il 29% delle emissioni, mentre all'agricoltura viene attribuito solo il 9%. Si proverà ora a fare alcuni calcoli delle emissioni causate da un chilo di grano duro, sia quando importato dall'estero, per esempio dal Canada, sia quando prodotto in Italia.Ragionando per ordini di grandezza, una nave che da Vancouver, nella British Columbia canadese, trasporta grano duro fino a Bari deve percorrere circa 16mila chilometri passando da Panama. Ipotizzando un carico di 50mila tonnellate e un consumo specifico di 0,6-0,7 grammi per tonnellata trasportata e per chilometro (gr/km), si ottiene un consumo approssimativo di carburante intorno alle 500 tonnellate. In sostanza, ogni chilo di grano necessita di circa 10 grammi di carburante per giungere da Vancouver a Bari.
Dato che ogni grammo di carburante ne produce circa tre di anidride carbonica, significa che ogni chilo di quel grano canadese ha causato 30 grammi di emissioni solo di trasporto via nave. A questi andrebbero poi aggiunte le emissioni dovute al trasporto del grano dai campi canadesi al porto di Vancouver. Un dato inquantificabile per il Canada tramite le fonti consultate.
Se invece quel chilo di grano duro venisse trebbiato in Italia, e per giungere ai pastifici pugliesi o campani tramite un autoarticolato percorresse 200 chilometri, il suo consumo di carburante scenderebbe all'incirca a soli due grammi, corrispondenti a sei grammi di anidride carbonica. Ciò perché il consumo specifico di un tir stalla sui 10 grammi per tonnellata trasportata e per chilometro percorso. Adottando la comparazione di cui sopra, che può variare molto in funzione del luogo di origine del grano, si può giungere quindi a una considerazione finale: utilizzare grano italiano al posto di grano canadese, ma anche messicano o australiano, implica diminuire più o meno dell'80% le emissioni di anidride carbonica dovute ai soli trasporti, a tutto beneficio del pianeta intero.
Poco da dire sui viaggi di ritorno, in forma di pasta. Perché una tonnellata di pasta che ritornasse a Vancouver emetterebbe le stesse quantità di anidride carbonica della tonnellata di grano che da Vancouver è arrivata. Considerando quindi che più della metà della produzione interna di pasta va all'estero, il contributo dei trasporti in termini di emissioni sale ulteriormente. È la globalizzazione, baby.
Italians do it better?
Come mitigare questi trend, rendendo ancor più sostenibile la filiera della pasta italiana?Magari innalzando le rese di grano italiano tramite l'uso di ogni possibile strumento: genetico, chimico e meccanico. Ciò implicherebbe capitalizzare in Italia non solo i benefici economici di aver prodotto in proprio più grano, bensì permetterebbe anche di risparmiare quattro quinti delle emissioni di gas serra dovute alle importazioni da Oltreoceano.
Queste difficilmente potranno crollare in ogni caso, visti i fabbisogni di grano duro in Italia e i limiti di superficie del Belpaese, ma va comunque ammesso come ogni tonnellata in più prodotta in Italia innalzerebbe proporzionalmente la sostenibilità complessiva di tutta la filiera. Un punto che dovrebbe essere valutato con maggiore attenzione anche dai decisori, ovvero quelli che pare non siano particolarmente attenti alle ambasce di un settore, quello cerealicolo, che vede crescenti problemi fitosanitari, come pure patisce di rugginosità logistiche importanti. Sarebbe cioè giunta l'ora di comprendere che essere filo-ecologisti localmente, inseguendo storytelling chemofobici e "passatisti", non fa altro che farci diventare sempre più anti-ecologisti globalmente.
E visto che il pianeta è uno, sarebbe meglio comprenderlo in fretta, superando i localismi spiccioli. Perché fare gli ecologisti con le emissioni degli altri non pare cosa né etica, né sostenibile.