La coltivazione del mais è uno dei pilastri del settore agroalimentare italiano. Dalla zootecnia dipende gran parte della produzione di carne lavorata e formaggi, che sono tra i prodotti di punta del made in Italy. Tuttavia, negli ultimi vent'anni, la coltivazione del mais ha subìto un progressivo declino, dovuto a una serie di fattori concomitanti. Il cambiamento climatico ha reso sempre più complessa la gestione delle coltivazioni, con periodi di siccità alternati a piogge torrenziali che hanno messo a dura prova la produttività.
A questo si aggiunge la spinta dell'Unione Europea a ridurre la dipendenza dalla monocoltura, attraverso una Politica Agricola Comune che incentiva la diversificazione e la rotazione. Le pressioni ambientali e normative si combinano con una crescente richiesta da parte del mercato per pratiche agricole più sostenibili. Sempre più consumatori e aziende dell'industria alimentare vogliono prodotti che abbiano un minore impatto ambientale, spingendo l'intera filiera a ripensare i propri metodi produttivi.
L'agricoltura rigenerativa si inserisce in questo contesto come un possibile approccio in grado di coniugare sostenibilità economica e ambientale. L'idea di base è quella di migliorare la fertilità del terreno, aumentare la resilienza delle colture e ridurre la dipendenza da input chimici ed energetici. Ma cosa significa, concretamente, applicare un approccio rigenerativo alla maiscoltura? Quali sono le tecniche che possono essere adottate e quali vantaggi si possono ottenere?
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Per rispondere a queste domande abbiamo intervistato il professor Vincenzo Tabaglio, docente di Agronomia presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, che all'interno dell'Azienda sperimentale Cerzoo da anni lavora su modelli agricoli sostenibili.
Professore, cosa significa adottare un approccio rigenerativo nella coltivazione del mais?
"Prima di tutto è necessario chiarire che l'agricoltura rigenerativa non è un pacchetto di pratiche standardizzate applicabili a una singola coltura, ma deve essere concepita come sistema agricolo aziendale nel complesso. Certo, risulta più complicato parlare di agricoltura rigenerativa per chi fa solo mais, perché uno dei cardini di questo approccio è la diversificazione colturale. Ma anche quel sistema semplificato può e deve essere migliorato nella direzione della sostenibilità.
Nei limiti del possibile, il mais deve essere inserito in un sistema agricolo più complesso, dove la rotazione delle colture, la copertura permanente del suolo e la riduzione delle lavorazioni diventano elementi fondamentali di compatibilità ambientale".
Qual è l'obiettivo dell'agricoltura rigenerativa?
"L'obiettivo principale è migliorare la funzionalità dell'agrosistema potenziando i cosiddetti servizi ecosistemici, per esempio aumentando la dotazione di sostanza organica e la fertilità del suolo, la sua capacità di trattenere l'acqua, la sua biodiversità funzionale, eccetera. Questo approccio, che deve essere strutturato diversamente in ogni situazione aziendale, permette anche di aumentare l'efficienza d'uso degli input, di ridurre la dipendenza da fertilizzanti e agrofarmaci, e di migliorare la sostenibilità economica dell'azienda nel lungo periodo".
Quali sono le principali tecniche che un maiscoltore può adottare per avvicinarsi a questo modello?
"La prima strategia è sicuramente la rotazione colturale, pur negli specifici contesti aziendali. Quindi, anche il maiscoltore in monocoltura deve raccogliere la sfida e 'movimentare' un po' la struttura produttiva. L'ideale sarebbe introdurre una certa alternanza con leguminose e cereali vernini, così da migliorare la struttura del suolo e limitare lo sviluppo di infestanti e patogeni specifici del mais".
Ci può fare degli esempi?
"In maniera più concreta, si può almeno prevedere la semina di cover crop autunno vernine, o una seconda coltura foraggera tra il mais, magari riducendo in entrambi i casi l'intensità delle lavorazioni. Coltivare specie come la segale, la veccia vellutata, la senape o miscugli diversi tra un raccolto e l'altro consente di migliorare il contenuto di sostanza organica, proteggere il suolo dall'erosione, e, in alcuni casi, contenere le infestanti grazie all'effetto allelopatico di alcune colture di copertura".
Spesso si parla anche di semina su sodo o minima lavorazione. Abbandonare l'aratro conviene?
"Abbandonare l'aratro non è un'espressione corretta, perché non è un obiettivo da perseguire a prescindere. Dipende sempre dal contesto aziendale. In generale, è più corretto pensare alla lavorazione dei terreni con l'idea di ridurne l'intensità e la frequenza. Si può comunque dire che l'aratura, soprattutto quella profonda, porta a un'intensa mineralizzazione della sostanza organica e alla dispersione in aria del carbonio stoccato precedentemente nel suolo.
Adottando tecniche di minima lavorazione o di semina su sodo si può preservare meglio la fertilità e migliorare la capacità del suolo di trattenere umidità, un aspetto particolarmente importante in periodi di siccità".
Perché è importante avere un suolo ricco di sostanza organica?
"La sostanza organica dà vita al terreno, può sembrare banale ricordarlo. Oggi in alcune zone la dotazione è intorno all'1%, quando l'ideale sarebbe sopra il 3%, anche se il valore ottimale dipende anche dalla quantità di argilla presente. La sostanza organica migliora la struttura del suolo e la gestione dell'acqua, determina maggiore biodiversità e capacità di sostenere la crescita in salute delle piante".
Molti agricoltori temono che ridurre le lavorazioni e lasciare residui colturali possa aumentare i problemi fitosanitari. È un rischio reale?
"L'idea che lasciare paglia o stocchi di mais sul campo aumenti il rischio di malattie è solo parzialmente vera. Se i residui vengono gestiti correttamente e inseriti in un sistema di rotazione, il rischio di accumulo di patogeni si riduce sensibilmente.
Bisogna poi considerare l'uso delle cover crop, che possono interrompere il ciclo di sviluppo dei patogeni e ridurre l'inoculo. Inoltre, un terreno più sano, perché trattato con sistema rigenerativo, presenta una maggiore biodiversità, non solo microbica, è un suolo più in salute, ed è maggiormente in grado di contenere la presenza di patogeni".
Dal punto di vista economico, questo approccio può garantire la stessa redditività del sistema convenzionale?
"Agricoltura rigenerativa, o conservativa, o sostenibile, per me sono sinonimi di 'agricoltura fatta bene', non deve essere vista come una rinuncia alla produttività, ma come un sistema che migliora l'efficienza aziendale. È vero che in alcuni casi la resa per ettaro può diminuire, ma bisogna considerare, d'altra parte, i costi operativi, che generalmente si riducono rispetto alla gestione convenzionale".
Ci può spiegare meglio?
"Riducendo le lavorazioni si risparmia sul carburante. Nell'azienda sperimentale della Facoltà riscontriamo un risparmio di gasolio da un minimo di 30 fino ad un massimo del 70% nel confronto fra agricoltura convenzionale e conservativa, a seconda dell'annata e della coltura. L'uso delle cover crop e della rotazione colturale permette di ridurre la quantità di fertilizzanti necessari, abbassando ulteriormente i costi. Inoltre, un suolo più sano ha una maggiore capacità di trattenere l'acqua, questo significa minori costi di irrigazione.
Un altro aspetto da considerare è il crescente interesse per i crediti di carbonio, anche se non deve essere questa la sola molla che spinge l'agricoltore a cambiare modello produttivo".
Quali sono le principali difficoltà nell'adottare un approccio rigenerativo?
"La difficoltà principale è la necessità di un cambiamento di mentalità, seguita dall'esigenza di un accompagnamento tecnico. Molti agricoltori sono abituati a gestire l'azienda in un modo tradizionale e passare a un modello rigenerativo richiede un periodo di adattamento, nonché investimenti in nuove attrezzature, compresi i criteri dell'agricoltura di precisione".
Ma un maiscoltore interessato a cambiare approccio, dove può trovare supporto?
"Questo è un altro problema. In Italia ci sono pochi consulenti specializzati in agricoltura rigenerativa e spesso gli agricoltori devono fare unico affidamento sulle informazioni fornite dai tecnici delle aziende fornitrici di mezzi tecnici. Per questo sarebbe importante creare una rete di consulenza indipendente, come avviene in altri Paesi".